La luce in fondo al tunnel resterà spenta fino a nuova decisione

29 novembre 2014

Un cartello portato in corteo da un manifestante recava questa scritta: “Si comunica che a causa dell’austerità anche la luce in fondo al tunnel resterà spenta fino a nuova decisione. Firmato Angela Merkel”.

A volte la riaccensione della radio ci dice che la fine del tunnel è vicina anche se non la vediamo. Nessun segnale; e il buio è sempre più fitto. Abbiamo perso il 25% della capacità produttiva nel settore manifatturiero, una vera e propria desertificazione industriale; la disoccupazione ha raggiunto record storici ed è crescente (3.000 disoccupati al giorno in più nel mese di ottobre rispetto a settembre); il debito pubblico continua a crescere in valore assoluto e in rapporto al PIL; si sta azzerando il tasso di crescita dei prezzi e ci avviamo verso il flagello della deflazione.

Cosa si fa e cosa si potrebbe fare? I governi dispongono di tre leve per gestire l’economia: la politica monetaria, la politica di bilancio, la politica del cambio. I Paesi che hanno potuto usare questi strumenti, lo hanno fatto. Solo l’eurozona è rimasta in grave sofferenza ed è anche sul banco degli imputati del G20 per le negative ripercussioni sul resto del mondo. Questo perché i Paesi dell’eurozona hanno perso le leve di controllo dell’economia, ma non le hanno trasferite alla governance politica dell’Europa.

La politica monetaria è stata affidata alla BCE una istituzione indipendente dalla politica che, per statuto, ha compiti molto limitati rispetto alle banche centrali degli Stati nazionali. Sostanzialmente ha il solo compito di difendere l’eurozona dall’inflazione, un pericolo che non c’è da molti anni, e per di più fallisce l’obiettivo che essa stessa si è data, la crescita dei prezzi al tasso del 2%.

Il governo europeo gestisce un bilancio pubblico irrisorio rispetto alle dimensioni dell’area, circa l’1% del PIL dei Paesi aderenti, senza alcuna possibilità di svolgere politiche anticicliche e senza alcuna volontà di operare spesa in deficit. I governi nazionali possono fare soltanto politiche restrittive avendo, tutti, superato il vincolo del 60% del debito pubblico in rapporto al PIL.

Infine, con l’adozione dell’euro, i governi hanno perso la leva del cambio.

In questo contesto, qual è la terapia indicata dall’Europa? Austerità e riforme. La prima l’abbiamo sperimentata: nessun paese dell’eurozona ha prodotto avanzi primari così elevati e per così tanto tempo come ha fatto l’Italia. Dopo sette anni di crisi, la più grave in tempo di pace dal 1861, possiamo legittimamente dubitare che l’austerità stia piuttosto dalla parte dei problemi che non dalla parte delle soluzioni.

Quanto alle riforme, mi limito a riportare la sintesi efficace di Romano Prodi (convegno di Nomisma del 17 novembre scorso): “Di fronte a una sorta di dottrina astratta tedesca e di alcuni altri paesi si è continuato ad affrontare la crisi raccontando balle, dicendo che era un problema di riforme interne. Non ha senso. Quando manca la domanda si inietta, quando non c’è una politica si fa la politica“.

Dietro a tutto questo c’è, come accenna Prodi, una dottrina economica che non è solo astratta dalla realtà, ma appare anche sbagliata alla prova dei fatti. Una dottrina orientata ad emarginare dall’economia il ruolo dello Stato e della politica affinché il mercato – nel rispetto delle regole – possa svolgere al meglio, in piena efficienza, il proprio compito di creare benessere. Lo Stato deve limitarsi soltanto ad assicurare le regole di bilancio, anche con la disoccupazione, anche con la recessione economica. Non credo ci sia da meravigliarsi se il 47% degli italiani, in forte aumento rispetto a un anno fa ritiene, contro il 43%, che avere l’euro sia dannoso per il Paese (sondaggio Eurobarometro per conto della Commissione Europea).

Quanto tutto questo sia lontano dagli ideali dei padri fondatori dell’Europa, lo ha mirabilmente indicato Papa Francesco richiamando gli organi di governo europei alla considerazione dei valori fondamentali cui dovrebbero ricondurre priorità e obiettivi, in coerenza con la storia e con la civiltà del nostro continente.

Ha fatto alzare lo sguardo dei governanti e li ha invitati a considerare i problemi in una prospettiva ben più alta di quella cui ci hanno abituati i leader europei. Non ha usato mezze parole Papa Francesco. Non ha esitato a mettere i governanti europei di fronte alla responsabilità di una crescente “sfiducia da parte dei cittadini nei confronti di istituzioni ritenute distanti, impegnate a stabilire regole percepite come lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addirittura dannose”. Ha detto proprio così: regole lontane se non addirittura dannose.

Tra i tanti temi trattati nel suo “messaggio di speranza e di incoraggiamento”, mi ha colpito l’attenzione che ha voluto dedicare al tema dell’occupazione e l’enfasi che ha posto sulla centralità delle relazioni che legano alcune parole-chiave del suo discorso: “persona”, “dignità”, “lavoro”. Ci ha detto che queste tre parole sono indissolubilmente legate, costituiscono un trinomio. “È tempo di favorire le politiche di occupazione … di dare stabilità e certezza delle prospettive lavorative, indispensabili per lo sviluppo umano dei lavoratori”. Ha constatato con rammarico il “prevalere delle questioni tecniche ed economiche al centro del dibattito politico, a scapito di un autentico orientamento antropologico”.

Ha ricordato che al centro del progetto politico dei padri fondatori dell’unione europea vi era l’uomo, non in quanto “cittadino”, non in quanto “soggetto economico”, ma in quanto “persona umana dotata di dignità”. “La nostra storia recente si contraddistingue per l’indubbia centralità della promozione della dignità umanaI grandi ideali si sono persi a favore dei tecnicismi burocratici; prendetevi cura della fragilità dei popoli e delle persone”. Ha sottolineato che “promuovere la dignità della persona significa riconoscere che essa possiede diritti inalienabili di cui non può essere privata ad arbitrio di alcuno e tanto meno a beneficio di interessi economici … il lavoro unge di dignità la persona umana”.

Una scossa morale, quella di Papa Francesco. Ci richiama ai fondamenti etici della teoria economica che è nata, non dimentichiamolo, dalla filosofia morale intesa come “teoria della pratica”, riflessione su come dobbiamo agire, su come devono essere le nostre azioni per essere “giuste”, orientate al bene e, quindi, quali debbano essere le norme che dobbiamo seguire per realizzarlo. Si potrà obiettare che esiste una distanza siderale tra l’azione dei politici e i fondamenti della teoria economica. Ma non è così. Ce lo ricorda Keynes in uno degli aforismi più citati: “le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. Gli uomini pratici che si ritengono liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto”. Anche di quelli sbagliati.

Lungi da me l’idea di schierare dottrinalmente e politicamente le indicazioni del Papa, mi limito a dire che il suo discorso probabilmente è piaciuto molto a chi pensa che per uscire dalla crisi sia necessario ispirarsi alle dottrine economiche keynesiane e minskyane. Forse è piaciuto meno ai cultori delle teorie neoclassiche e ai fautori del liberismo o dell’ordoliberismo tedesco. Resta il problema di fondo, come ha sottolineato qualche giorno fa Wolfgang Munchau sul Financial Times: gli economisti tedeschi si dividono grosso modo in due categorie; quelli che non hanno letto Keynes e quelli che non hanno capito Keynes.

Pubblicato dalla Gazzetta di Parma

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