Aggiornato il 27.03.2024 con aggiunta dei punti 6) e 7)
In Europa e negli Stati Uniti verranno destinati ingenti sostegni pubblici (soprattutto negli USA) a supporto della transizione alla mobilità elettrica. Per di più, in Europa sarà proibita, a partire dal 2035, l’immatricolazione di auto con motore a scoppio.
Nel mio post del 13 aprile scorso ho sostenuto che quest’ultima decisione degli organi europei è stata presentata con finalità nobilitanti, surrettiziamente motivate dall’esigenza di contenere l’emissione di CO2 nell’atmosfera.
Questa motivazione risulta indubbiamente condivisibile sul piano dei principi ma poco credibile sul piano dei reali benefici ambientali che sarebbero conseguiti. Ad un’analisi più concreta, e alla prova dei dati, la motivazione nobilitante non riesce a nascondere quello che potrebbe essere un intento, quanto meno collaterale, più credibile ma meno narrabile.
Si tratterebbe, in sostanza, di dare una giustificazione più “presentabile” al meno nobile sostegno alle case automobilistiche. Sostegno diretto (aiuti di Stato alle imprese a supporto degli investimenti) e sostegno indiretto (incentivi per gli acquirenti) al fine di supportare la competitività del settore automobilistico europeo nei confronti dello strapotere dell’industria cinese che si estende lungo l’intero ciclo di produzione dell’auto elettrica. Intento molto concreto, ma meno politicamente sostenibile sul piano dei principi anche perché rappresenta un’abiura rispetto ai dogmi fondativi dell’ordinamento europeo.
Gli USA lo fanno erogando incentivi a carico del bilancio pubblico. L’UE, non disponendo di un reale bilancio pubblico, lo fa sospendendo le norme restrittive sugli aiuti di Stato da parte dei Paesi membri e, soprattutto, lo fa con un provvedimento dirigistico che, di fatto, crea la domanda di auto elettriche (attualmente molto modesta nei Paesi dell’Unione), provvedimento che costituisce una inversione ad U rispetto ai principi fondativi dell’Unione.
Sono sorpreso dal fatto che le idee presentate nel mio post e in una mia relazione in un Convegno sul futuro dell’auto elettrica non trovino riscontro, per quanto mi risulta, nella letteratura economica e tanto meno nella pubblicistica corrente. Per questo motivo trovo conforto nelle rarissime voci che propongono argomentazioni in sintonia e mi riprometto di riportarle in questo post integrativo.
1) Il video seguente rappresenta una testimonianza molto efficace a supporto di quanto ho sostenuto nel mio post a proposito del modesto impatto riduttivo dell’emissione di CO2 che potrà essere generato dalla transizione alla mobilità elettrica.
2) Marco Dell’Aguzzo (qui) porta ad esempio la Norvegia, Paese nel quale le auto elettriche rappresentano l’80 per cento delle nuove immatricolazioni. Cosa insegna il caso della Norvegia? << In sostanza, il caso della Norvegia sembra indicare che le automobili elettriche non sono sufficienti all’abbattimento delle emissioni >>.
3) Alessandro Penati, in un articolo del 10 luglio sul quotidiano Domani, mette in evidenza come la politica dell’Unione a sostegno della mobilità elettrica, oltre a perseguire obbiettivi di carattere ambientale, risponde anche a motivazioni finalizzate alla competitività e allo sviluppo economico. Il caso dell’auto elettrica, che vede l’Europa in grave ritardo rispetto a Cina e USA, fornisce un esempio illuminante dei guasti causati dalla bolla ideologica mercatistica che ha caratterizzato l’architettura dell’Unione fin dalle sue origini ed ha spinto nella direzione di arginare il ruolo dello Stato, della politica industriale e della politica tout court dalle dinamiche dei mercati. Ora, si cerca di rimediare spostando il pendolo dell’economia dal mercato verso lo Stato, ma probabilmente è troppo tardi e, per di più, l’Unione non dispone degli strumenti necessari ai quali, invece, Cina e USA hanno fatto ampio ricorso.
Riporto di seguito alcuni stralci dell’articolo di Penati.
<< Lo sviluppo economico dipende da qualità e quantità degli investimenti in capitale umano e fisico. In questo lo Stato ha un ruolo chiave: oltre a produrre quei beni pubblici che hanno forti esternalità positive sulla produttività (istruzione, ricerca, sanità) e realizzare gli investimenti che il mercato non può finanziare, deve indirizzare gli investimenti privati nei settori con il più alto potenziale per la crescita. Questa premessa è utile per capire la rilevanza del Green Deal europeo: l’obiettivo di zero emissioni nocive nel 2050 è importante non solo in termini di benessere ambientale, ma sarebbe anche strategico per innalzare il trend di crescita del Continente. … Il settore automobilistico ha una forte rilevanza in Europa. Per non perderla sono necessari enormi investimenti per la riconversione all’elettrico e un aumento della domanda di vetture elettriche (EV) per raggiungere le economie di scala necessarie ad abbattere i costi di produzione e remunerare il capitale investito. Il blocco UE alle nuove auto con motore endogeno nel 2035 aveva proprio lo scopo di rendere certa la svolta elettrica e quindi la domanda di EV, riducendo così il rischio degli investimenti e favorendo le economie di scala. … Cina e Stati Uniti, i due principali mercati anche per case automobilistiche europee, hanno già svoltato decisamente verso l’elettrico. … Le imprese cinesi stanno raggiungendo le economie di scala per poter invadere con offerte competitive i mercati europei e americani >>.
4) Marco Zanni, Parlamentare europeo, riprende un grafico di Bloomberg sulle emissioni di CO2
e commenta in un TWEET del 21 luglio scorso:
“Bloomberg pubblica questo grafico sui grandi inquinatori. L’UE è quello spicchietto blu che pesa il 7.3%. Significa che la follia green di Timmermans e di Von der Leyen ci costerà la distruzione dell’industria, dell’agricoltura e enormi sacrifici a famiglie per un beneficio risibile“.
Per amore di precisione: sarebbe opportuno non utilizzare il lemma pollution (inquinamento) quando si parla di CO2 che è tutto meno che fonte di inquinamento.
5) da Critica Climatica TW 01.11.2023
”Sono i popoli d’Europa che ci hanno invitati ad agire con decisione contro il cambiamento climatico.” Così si è espressa la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen.
Il fine è davvero soddisfare i cittadini europei e salvare il mondo?
La Germania è la nazione economicamente più forte in Europa. Lo è anche politicamente. La Von der Leyen è tedesca e le sue decisioni sono fortemente influenzate dagli interessi di patria. Vediamo allora il rapporto tra Germania e Green New Deal.
La Germania non è affatto un paese razionale come si pensa. La Germania è un paese romantico. Quando un’idea è buona, sono perfetti, quando è cattiva la eseguono comunque magistralmente prima di cambiare direzione. E non esitano a trascinarci anche gli altri!
Da bravi primi della classe, si sono detti: “Saremo i primi in Europa a industrializzare con le energie rinnovabili.” Hanno iniziato a fare molti pannelli solari e un sacco di pale eoliche in casa fino a quando i Cinesi sono entrati in ballo.
Questi hanno cominciato a produrre a minor prezzo dei tedeschi che sono caduti nella trappola che si erano creati. Dal 2010 la Germania ha investito più di 30 miliardi all’anno per l’installazione di pale eoliche e fotovoltaico. Ma il problema non erano solo i cinesi.
Mentre gli impianti tradizionali sono regolabili, le rinnovabili sono intermittenti, e per gestire un parco di produzione di energia elettrica c’è bisogno di una produzione garantita da risorse programmabili nei picchi di consumo dove le rinnovabili non garantiscono nulla.
Contro le loro aspettative, il prezzo dell’elettricità in Germania è superiore del 40% alla media europea e il doppio di quella francese. Inoltre, nonostante 30.000 pale eoliche e centinaia di miliardi spesi, le loro emissioni non diminuiscono in modo significativo.
La Germania aveva 100 GW di potenza controllabile. Oggi ha ancora una potenza controllabile di 100 GW, come prima. C’è meno energia nucleare e, con la guerra in Ucraina, più carbone per compensare la mancanza del gas russo e GNL a caro prezzo dagli USA.
Una volta resisi conto che le rinnovabili sono intrinsecamente la causa dell’aumento dei costi, non potevano rischiare di perdere la propria competitività industriale sull’energia con gli altri paesi europei. Che fare? Semplice: più rinnovabili obbligatorie per tutti.
Così costi più alti per tutti. Usando il loro peso politico ed economico, hanno ingiunto alla Francia di rinunciare alle centrali nucleari (energia elettrica troppo a buon mercato) e hanno costretto gli altri ad avanzare più velocemente sulle rinnovabili.
Il Green Deal di Ursula Von der Leyen ha avuto buon gioco ad assecondare le necessità del proprio paese sfruttando la folle campagna mediatica contro i cambiamenti climatici. Altro che salvare la Terra! Come affondare le economie europee per salvare quella tedesca.
6) da notizieauto.it 16 marzo 2024
https://www.notizieauto.it/toyota-con-i-materiali-di-unelettrica-potremmo-fare-90-ibride
Toyota: “Con i materiali di un’elettrica potremmo fare 90 ibride”
Akio Toyoda, presidente di Toyota, non ha mai nascosto il suo disappunto verso le auto elettriche e, in generale, in Giappone l’adozione di questi veicoli è sempre stato molto cauto. Il Paese del Sol Levante vede infatti un numero davvero limitato di veicoli a batteria, sia per quanto riguarda la produzione che l’adozione. Nei prossimi mesi potrebbe smuoversi qualcosa grazie alla collaborazione tra Nissan e Honda, che intendono stringere una partnership per produrre auto elettriche e software per contrastare l’avanzata della concorrenza cinese.
Toyoda, che ha sempre espresso fiducia nel futuro dei motori a combustione interna (ICE) e ha evidenziato l’importanza di una strategia diversificata per l’azienda, sostiene che la decisione su quali veicoli produrre dovrebbe essere lasciata ai consumatori, piuttosto che essere dettata da normative. (1)
La casa automobilistica giapponese è convinta che il problema delle emissioni possa essere affrontato non solo con l’elettrico, ma anche attraverso veicoli ibridi e l’uso di idrogeno come carburante. Questo approccio ha permesso a Toyota di mantenere una posizione di leadership nella produzione automobilistica globale, con una preferenza marcata per i veicoli ibridi in molti mercati, tra cui l’Europa e, in particolare, l’Italia.
Toyota sta preparando il lancio del suo nuovo B-SUV B2ZX, ma mantiene la priorità sullo sviluppo di veicoli ibridi. Questa direzione è stata sottolineata da un documento inviato ai concessionari statunitensi la scorsa primavera, che enfatizza la strategia aziendale di privilegiare la vendita di ibridi rispetto ai modelli puramente elettrici, seguendo quella che è conosciuta come regola 1:6:90. Secondo Toyota, i materiali necessari per la produzione di un veicolo elettrico potrebbero essere utilizzati per realizzare sei ibridi plug-in o fino a novanta ibridi tradizionali.
L’azienda ha quindi constatato che i veicoli ibridi possono ridurre le emissioni di CO2 fino a 37 volte in più rispetto a un singolo veicolo elettrico, considerando l’intero ciclo di vita. Questa teoria è oggetto di discussione, contestata dagli ambientalisti che enfatizzano l’urgenza di un’impegno complessivo verso l’elettrificazione come strategia principale per ridurre l’impatto ambientale dell’industria automobilistica. Pare invece che non siano d’accordo gli ambientalisti che negli ultimi giorni hanno colpito duramente la Gigafactory Tesla di Berlino, che hanno dato fuoco ad un traliccio della corrente elettrica causando il black out della fabbrica.
(1) riprendo l’affermazione di Toyoda sopra evidenziata perché sottolinea l’epocale inversione ad U dell’Unione Europea in relazione al dogma della concorrenza sul quale essa è fondata (art.3 del TUE: … lo sviluppo dell’Europa è basato … su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva).
Le parole di Einaudi (riportate da Guido Stazi in “Stato o mercato ? Einaudi e il paradosso della concorrenza” in Milano Finanza 23 marzo 2024) aiutano a capire l’ottica liberale che, nel definire l’architettura istituzionale dell’Unione Europea, ha guidato l’impostazione dei rapporti tra Stato e mercato, tra libertà di iniziativa economica dei singoli e i limiti ad essa posti dalle leggi e dall’intervento pubblico. La questione che Einaudi poneva era costituita dalla natura delle regole da applicare al mercato in una società liberale: un conto è discutere sulle norme fondamentali per garantire l’ordine di mercato e la rimozione degli ostacoli allo svolgimento del processo concorrenziale, altro è porsi obiettivi di carattere politico, economico o sociale e pensare di poterli raggiungere imponendo regole e limitazioni al funzionamento del mercato e al comportamento degli operatori . (Sottolineo la contrapposizione tra un conto e altro; il passaggio da un conto ad altro è esattamente l’inversione ad U che l’UE sta compiendo rispetto ad un suo principio fondativo).
Perché, citando testualmente il pensiero di Einaudi, << il frutto spirituale immateriale più alto della economia di mercato è quello di sottrarre l’economia alla politica. Le decisioni su quel che si deve produrre , sul come produrlo, sul quanto produrre sono prese direttamente dal vero unico padrone del mercato, dall’uomo consumatore. I consumatori decidono, ciascuno per conto proprio, e i produttori ubbidiscono in guisa da soddisfare perfettamente le esigenze dei consumatori>>. Einaudi vede il mercato come servo della domanda in un quadro cocettuale che postula la massimazione dell’utilità sociale quale somma delle utilità individuali. Questo è quanto avviene nel bel mondo della teoria economica marginalista, utile a supportare l’ideologia che mira a confinare l’azione dello Stato e della politica. Nella realtà è vero il contrario. La gestione delle imprese è costantemente orientata alla ricerca del “potere di mercato” condizione essenziale per tendere alla massimizzazione del profitto.
Il divieto di produrre auto a motore a scoppio a partire dal 2035 avrebbe fatto inorridire Einaudi. Ma è una cartina tornasole che rivela quanto – perfino a Bruxelles – ci si renda conto che appartiene al mondo delle mere congetture la supposta autonoma capacità del mercato e della concorrenza di generare la migliore allocazione delle risorse, di produrre competitività e benessere a condizione che lo Stato si astenga dal produrre intralci alterando le dinamiche del mercato soprattutto con l’attuazione di politiche industriali finalizzate ad orientare le scelte relative a investimenti, produzione e consumo.
Rimane il dubbio (si fa per dire): non è forse che l’inversione ad U è stata determinata dalla constatazione che l’emarginazione dello Stato e della politica dalle dinamiche del mercato anziché produrre vantaggi competitivi a beneficio dei paesi membri dell’UE ha creato nuove opportunità a beneficio della Cina ?
7) Alberto Bagnai https://goofynomics.blogspot.com/2024/02/il-green-e-la-lotta-di-classe.html
“Una proposta di policy che preveda da un lato massicci sussidi pubblici alle imprese per sostenerne i profitti, e dall’altro un’erosione del salario reale, realizzata inducendo coattivamente i lavoratori ad acquistare beni più costosi, determina in re ipsa una redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, ed è quindi la cara vecchia lotta di classe al contrario …
“There’s class warfare, all right, but it’s my class, the rich class, that’s making war, and we’re winning.” Warren Buffett
… Il green è questo: sussidiare, nel nome di un fine superiore, aziende che non hanno mercato, e comprimere, nel nome di un fine superiore, i salari reali dei lavoratori dirottandone la spesa su prodotti più cari … la proposta green come oggi è articolata si traduce in una politica redistributiva fortemente regressiva, che danneggia i ceti deboli e avvantaggia il grande capitale”.