Europa: troppo poco, troppo tardi

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EDITORIALE

Europa: troppo poco, troppo tardi

di Eugenio Pavarani –

02 maggio 2020, 11:28

Europa: troppo poco, troppo tardi

I recenti atti di indirizzo del Consiglio europeo possono essere esaminati con l’ottimismo della volontà o con il pessimismo della ragione. Al fine di valutare razionalmente cosa si propone di fare l’Unione europea per affrontare la crisi economica è utile sviluppare l’analisi in due direzioni: a) il raffronto dei provvedimenti programmati con le linee d’azione già implementate da Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna; b) la considerazione di quale sarà, nei prossimi mesi, la situazione economica e finanziaria di alcuni Stati europei qualora le contromisure europee non risultassero adeguate all’emergenza in corso.

I tre Paesi sopra indicati stanno facendo esattamente quello che la professione economica, pressoché unanimemente,  suggerisce in questo momento: stanno sostenendo con immediatezza e con tutte le risorse necessarie sia l’offerta, mantenendo in vita le imprese maggiormente minacciate, sia la domanda, surrogando il reddito venuto meno per la perdita del lavoro.

I soldi dove li prendono? Per una volta c’é identità di vedute tra gli economisti: i soldi necessari li deve fornire la Banca Centrale evitando incrementi del debito che porterebbero le finanze pubbliche fuori equilibrio e alla mercé dei mercati finanziari.

L’Unione europea cosa fa? Prima di tutto ha dovuto fare i conti con i vincoli auto-imposti che la rendono estremamente vulnerabile di fronte alle crisi economiche. Quindi, come già ha fatto nel 2007-2008 e nel 2011-2012 quando è andata vicino all’implosione, l’Unione ha messo in quarantena alcuni capisaldi della sua architettura. Sono stati sospesi i vincoli sui bilanci pubblici (il Parlamento tedesco addirittura ha abrogato il principio costituzionale del pareggio di bilancio). Inoltre sono state accantonate le norme che vietano gli aiuti di Stato alle imprese (la Germania è il Paese che più di tutti si sta avvalendo di questa deroga, si vedano ad esempio i miliardi stanziati per tenere in vita Lufthansa).

E’ evidente che i Paesi che dispongono di maggiore “spazio fiscale” acquisiranno ulteriori vantaggi competitivi a danno dei Paesi che dovranno necessariamente contenere la spesa. Il divario tra Nord e Sud è destinato ad allargarsi in modo sempre più preoccupante.

Oltre alla sospensione dei vincoli, è stata programmata una sorta di manutenzione straordinaria di istituzioni già esistenti. Verranno attenuate le condizioni di aggiustamento macro-economico che accompagnano i prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (si discute peraltro su parole non ancora consolidate in un testo). Inoltre, sarà aumentata la capacità della Banca Europea degli Investimenti di erogare prestiti alle imprese. Nel 2019 la Bei ha co-finanziato con 11 miliardi 143 progetti italiani per complessivi 34 miliardi. La ricapitalizzazione della Banca potrebbe in futuro coprire progetti italiani per circa 15 miliardi al netto del co-finanziamento. 

E’ stata infine programmata l’ istituzione di due nuovi organismi.

Il primo è un Fondo temporaneo (Sure) per il sostegno della disoccupazione. Quando sarà istituito, e soltanto se tutti i Paesi avranno erogato su base volontaria le necessarie garanzie, l’Italia potrà ottenere – sempre a titolo di prestito – l’equivalente di circa un mese di cassa integrazione.

Del secondo organismo, anche questo temporaneo, a tutt’oggi conosciamo soltanto il nome: si chiamerà Fondo per la ricostruzione. Il Consiglio europeo ha incaricato la Commissione di dare un contenuto all’idea proposta da Macron che potrebbe rappresentare il pezzo forte delle misure europee per il contrasto della crisi. In realtà il negoziato sui contenuti deve ancora iniziare. E chi ha vagheggiato svolte epocali verso innovative politiche di trasferimento di risorse tra Paesi è stato subito richiamato all’ordine dalla Merkel. Ancor prima della riunione del Consiglio, nel corso di un’audizione, ha garantito al Parlamento tedesco che il progetto rimarrà all’interno delle norme europee che vietano all’Unione di farsi carico delle spese degli Stati membri (art. 125 Tfue, fatte salve le misure temporanee ed eccezionali previste dall’art.122).

Per ora, oltre a rilevare che i provvedimenti appartengono alla categoria del troppo poco troppo tardi, si deve anche considerare che sono tutti basati sull’incremento del debito che dovrà essere restituito. Con un calcio al barattolo, viene spostato in avanti il problema e ci ritroveremo tra alcuni mesi con diversi Paesi, non più soltanto l’Italia,  con debiti pubblici più elevati ed ancor più esposti a prevedibili attacchi speculativi con il rischio dell’effetto domino che già abbiamo conosciuto nel 2007 e anni seguenti.

La Bce rimane, come negli ultimi sei anni, il principale baluardo a difesa dell’integrità dell’eurozona. Emergono tuttavia due criticità.

In primo luogo, la moneta creata dalla Bce non va direttamente ad alimentare le casse degli Stati ma va alle banche. L’esperienza maturata dal 2014 mostra che il canale di trasmissione dalle banche all’economia non arriva a destinazione con la stessa efficacia della spesa pubblica.  

La seconda criticità riguarda il fatto che la Bce sta aggirando quasi tutti i dogmi che la caratterizzano. Sulla possibilità di procrastinare e di accentuare queste deviazioni pende la spada di Damocle della Corte costituzionale tedesca che deve pronunciarsi su ricorsi in ordine al mancato rispetto dei Trattati e alla conseguente incompatibilità con la Legge fondamentale tedesca. La sentenza, programmata per il giorno 5 maggio prossimo, potrebbe imporre restrizioni all’attività della Bundesbank e, di riflesso, alla stessa Bce.  C’è da augurarsi che il pronunciamento sia favorevole e che comunque non limiti eccessivamente il raggio d’azione della Banca. Altrimenti le conseguenze sarebbero disastrose per il futuro dell’ Unione europea.

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