Perché cambiare la Costituzione

Gazzetta di Parma, 25 novembre 2016

Il diavolo sta nei dettagli. Questo vecchio e saggio adagio può essere una buona guida per cercare la risposta ad una domanda fino ad oggi rimasta inevasa, almeno per me: da dove viene questa pressante esigenza di cambiare la Costituzione?

Ho imparato dalle famose parole di Giuliano Amato (che riporto più avanti) a interpretare le trasformazioni economico-sociali, richieste dall’Europa, collocandole nell’ambito di un quadro tattico-programmatico di lungo periodo scandito dalla lenta, inesorabile, realizzazione “pezzo per pezzo” del progetto neo-liberista europeo.

Un progetto che, oggi, viene spacciato come l’opportunità di svecchiamento del nostro ordine sociale e come l’auspicabile adeguamento alla presunta modernità proposta dall’Europa. In realtà, già nel 1946 nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente i principi neo-liberisiti  propugnati da Einaudi furono respinti come espressione di una dottrina ottocentesca, vecchia e fallimentare, responsabile, tra l’altro, di rilevanti ingiustizie sociali nella distribuzione del reddito (la storia si ripete oggi puntualmente) che portarono alla grande crisi degli anni trenta e, comunque, espressione di una dottrina che si poneva agli antipodi rispetto all’innovativo costituendo progetto democratico fondato sui diritti sociali inviolabili delle persone e sul compito dello Stato di renderli effettivi (primo fra tutti il diritto-dovere al lavoro).

A chi avesse dubbi al riguardo suggerirei di ascoltare in rete le famose emozionanti parole rivolte da Calamandrei nel 1955 agli studenti milanesi sul principio lavoristico posto a fondamento della Costituzione, principio che intende il lavoro come strumento dello sviluppo delle persone, della loro inclusione sociale, della loro dignità di uomo e di donna. A segnare dolorosamente le distanze siderali dalle parole di Calamandrei, oggi non sono cambiati soltanto i principi (il lavoro è ridotto nella logica neo-liberista al rango di merce il cui prezzo è governato dal mercato) ma è cambiato anche il lessico. Non si chiama più lavoro, si chiama job.

All’intervistatore (Barbara Spinelli) che auspicava un’accelerazione del progetto europeo, Amato rispose: << Non penso che sia una buona idea rimpiazzare, con grandi balzi istituzionali, questo metodo lento ed efficace – che solleva gli Stati nazionali dall’ansia, mentre vengono privati del potere – … perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questo è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee … >> (La Stampa 13 luglio 2000).

Insomma, se vuoi cuocere una rana non immergerla nell’acqua bollente. Ne schizzerebbe fuori in un attimo. Se, invece, la metti nell’acqua fredda apprezzerà l’intiepidirsi e cuocerà felice, lentamente, senza accorgersene. Credo (e spero di essere smentito da chi ben più di me è competente in materia) che con la riforma costituzionale verrebbe “frantumato” sempre “a poco a poco” un altro, ennesimo, “pezzo di sovranità”.

Perché cambiare la Costituzione? lo spiega il Governo (Ragioni della riforma, Senato, atti parlamentari, 8 aprile 2014): abbiamo << l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (che ha determinato) lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea >>. Insomma, ce lo chiede l’Europa. Ma perché ce lo chiede? Qual è la vera motivazione che non viene esplicitamente dichiarata? Il diavolo sta nei dettagli.

Secondo un’analisi proposta da Luciano Barra Caracciolo, con le modifiche apportate agli articoli 55 e 70 la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione Europea non discenderebbe più da Trattati, ma diventerebbe un obbligo di rango costituzionale: << ergo, la sovranità italiana sarebbe, per esplicito precetto costituzionale, vincolata, per sempre, ad autolimitarsi attraverso l’adesione alla stessa UE >>.

Si aprirebbe, secondo questa interpretazione, una finestra dalla quale entrerebbe nella stessa Costituzione il definitivo ribaltamento della gerarchia delle fonti tra principi costituzionali, da un lato, e diritto europeo dall’altro. Ciò restringerebbe ancor di più la sindacabilità della normativa europea da parte della Corte Costituzionale. Ma non solo. Supponiamo che l’elettorato italiano si orienti, come quello inglese, verso la decisione di non far più parte dell’Unione. I provvedimenti in tal senso – in assenza di una preventiva modifica costituzionale – potrebbero essere viziati da incostituzionalità in quanto renderebbero impossibile per il Parlamento l’adempimento dell’obbligo di attuare il diritto europeo come mission delle Camere (art. 55) e sostanza immancabile della funzione legislativa (art.70). Il Parlamento non potrebbe nemmeno esimersi, nel rispetto della volontà popolare, dall’adeguarsi alle politiche europee. Che valore avrebbe il voto popolare?

L’analisi di Barra Caracciolo mi sembra una risposta meritevole di attenzione al quesito sulle reali motivazioni dell’urgenza della riforma. E ciò anche considerando che, secondo l’ultimo Eurobarometro del Parlamento Europeo, soltanto un italiano su tre ritiene che essere membri dell’UE sia una cosa positiva per il nostro Paese e considerando che un esito elettorale in questa direzione segnerebbe la fine del progetto europeo. Quanto meno la fine dell’attuale progetto che, come ha recentemente scritto su queste colonne Alfredo Alessandrini con motivazioni più che condivisibili, non è emendabile con più Europa o meno Europa, ma soltanto con altra Europa.

Leave a Comment