AUTO ELETTRICA: TRANSIZIONI ECOLOGICHE E TRANSAZIONI ECONOMICHE

In ottemperanza ad un Regolamento adottato dall’Unione Europea, a partire dal 2035 non potremo più immatricolare auto con motore a scoppio. Con la sola eccezione delle auto con motori endotermici alimentati esclusivamente con elettro-carburanti, potremo acquistare soltanto auto elettriche. Il provvedimento si inquadra nella politica europea finalizzata a ridurre l’emissione di anidride carbonica nell’atmosfera.

Rispetto all’obbiettivo dichiarato, la soluzione proposta dagli organi dell’UE appare velleitaria, non risolutiva e fonte di nuovi problemi. Partendo da questa considerazione propongo la ricerca di altri obbiettivi, meno palesemente espliciti, che consentano di attribuire al provvedimento una ratio più credibile.

1. Per ogni problema complesso esiste sempre una soluzione semplice. Però è una soluzione sbagliata (George Bernard Shaw)

Cosa significa soluzione semplice di un problema complesso? in che senso si può dire che una soluzione semplice è una soluzione sbagliata?

Si tratta, in generale, di una soluzione che, da un lato, non risolve il problema, se non in misura modesta, e dall’altro lato crea nuovi problemi nell’intorno del problema principale. Nel caso specifico del Regolamento è evidente che la decisione sull’auto elettrica riduce in misura irrisoria le emissioni di CO2 nell’atmosfera ed è altrettanto evidente che, come sottoprodotto, genera problemi collaterali di carattere sociale ed economico.

Fatta questa premessa, propongo quindi qualche riflessione sul contributo irrisorio che l’auto elettrica darà alla soluzione del problema ambientale. Poi, presenterò qualche riflessione sui problemi collaterali che emergeranno come conseguenza del provvedimento. Infine, metterò in evidenza motivazioni di carattere economico in grado di dare maggiore plausibilità alla decisione dell’UE.

Ovviamente non si può non condividere l’obbiettivo di ridurre il problema dei gas serra; chi non è favorevole ad arrestare il surriscaldamento del pianeta e a fermare il cambiamento climatico ? Ma dobbiamo anche domandarci se c’è un equilibrio tra l’obbiettivo e lo strumento. Altrimenti, facciamo come quel Ministro che si è affacciato al balcone di Piazza Venezia e ci ha annunciato di avere sconfitto la povertà. Chi non è contrario alla povertà ? ma era impensabile che il reddito di cittadinanza, pur essendo utile in quella direzione, avrebbe potuto risolvere il problema della povertà e infatti la povertà in Italia ha ignorato le buone intenzioni del Ministro e ha proseguito nel suo percorso di crescita. Non mi sembra molto diverso il caso dell’auto elettrica come strumento risolutivo dell’emissione di CO2 nell’atmosfera.

Per dare evidenza a quanto premesso mostro alcuni grafici. Nel primo sono evidenziati con il colore blu gli Stati che hanno messo al bando i motori a scoppio.

 

Oltre all’Unione Europea e allo Stato della California, nessun altro Paese nel mondo ha preso questa decisione. A dispetto della limitata estensione geografica del provvedimento, si deve invece constatare che il problema dell’inquinamento dell’atmosfera da emissione di CO2 è evidentemente un problema che ha un’estensione mondiale: l’anidride carbonica non rispetta i confini geografici e politici. Ed è altrettanto evidente che, se in Europa siamo virtuosi e nel resto del mondo, invece, si continua a bruciare combustibili fossili, il nostro sforzo viene azzerato.

Il secondo grafico consente di dare una quantificazione al contributo che la decisione europea potrebbe portare in termini di riduzione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. Fatta pari a 100 l’emissione complessiva nel mondo, di quanto potremo contenere le emissioni eliminando, in Europa, la circolazione di auto alimentate a gasolio, a benzina e a gas?

La Cina è responsabile del 33% delle emissioni globali e, da sola, supera le percentuali cumulate attribuibili agli Stati Uniti, all’India, alla Russia e all’Unione Europea. Quest’ultima è responsabile soltanto di una quota limitata al 7,3% del totale.

La quota europea del 7,3% è spiegata in massima parte dal riscaldamento degli edifici e dalla produzione di energia elettrica attraverso combustibili fossili. Il settore dei trasporti è responsabile per meno di 2 punti percentuali. Bisogna poi considerare che i motori a scoppio continueranno a circolare anche dopo il 2035, se immatricolati prima di quella data, e soprattutto occorre considerare che non cesseranno le emissioni del trasporto pesante, che è escluso dall’applicazione del provvedimento, e dovranno essere ridotte in tempi più lunghi in forza di altre specifiche disposizioni.

Ancora, bisogna considerare che le auto elettriche non possono essere realmente definite ad emissione zero se si considera l’intero ciclo di vita che va dall’estrazione e raffinazione dei metalli per le batterie fino all’automobile finita e pronta per circolare e se consideriamo che l’energia per alimentare i motori elettrici potrebbe essere prodotta bruciando combustibili fossili.

Il contributo del provvedimento alla soluzione del problema ambientale appare quindi assolutamente irrisorio. Perciò si può affermare che siamo in presenza di una soluzione semplice (abolizione del motore a scoppio in Europa) di un problema complesso (che è planetario ed è generato da ben altre fonti).

Occorre inoltre considerare che, mentre in Europa daremo un ulteriore contributo alla riduzione seppure contenuo nell’ordine dello zero virgola, le emissioni di CO2 da parte della Cina continueranno ad aumentare rendendo vane le politiche di riduzione seguite in quasi tutte le altre aree del mondo, come è evidenziato dal grafico seguente.

Il Presidente cinese ha dichiarato, in un discorso all’ONU, che il suo Paese inizierà a ridurre le emissioni di CO2 soltanto dopo il 2030. Quindi, nei prossimi anni, continuerà la crescita delle emissioni che raggiungeranno il picco nel 2030 e non sappiamo che dimensioni avrà la punta massima. Non lo possiamo sapere per il semplice motivo che la Cina continua ad aumentare il numero e la potenza degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da carbone. Solo nel 2022, l’incremento realizzato (50 nuovi impianti) sarebbe in grado di coprire il fabbisogno annuale di energia elettrica dell’intera Italia. Ed è ancora maggiore il numero degli impianti programmati per i prossimi anni.

In conclusione, o lo sforzo è condiviso da tutti paesi del mondo, con una effettiva politica internazionale unitaria, o è uno sforzo vano.

Ci sono poi i problemi collaterali creati dalla decisione degli organi dell’UE. Mi limito a qualche cenno:

  • si prospetta un problema occupazionale: l’auto elettrica richiede il 30% di manodopera in meno rispetto ad un’auto tradizionale per il semplice fatto che un’auto elettrica si assembla con la metà dei componenti di un’auto con motore a scoppio. Il problema riguarda soprattutto l’Italia dove la produzione della componentistica è un settore industriale importante. E’ il secondo in Europa e sarà colpito profondamente considerando che filtri, valvole, testate, iniettori, pompe, serbatoi, ecc. non sono richiesti dalle auto elettriche. Quanti perderanno il posto di lavoro ? C’è convergenza nelle stime del governo, dei sindacati e di Confindustria su una cifra di circa 70.000 addetti che perderanno il lavoro e pare improbabile che possano essere riassorbiti con la produzione in Italia di batterie e di auto elettriche. Il problema è molto sentito anche in Germania dove l’amministratore delegato della Volkswagen, che era molto orientato sull’elettrico, aveva preannunciato una riduzione dei posti di lavoro nell’ordine delle 30.000 unità. Ne è seguito un contrasto molto duro con il potentissimo sindacato dei metalmeccanici che è sfociato, nell’estate dello scorso anno, nella destituzione dell’amministratore delegato sostituito dal CEO della Porche molto meno determinato sull’auto elettrica e favorevole, per una determinata fascia di automobili, alla continuazione della produzione di motori endotermici alimentati con elettro-carburanti ad emissione zero;
  • c’è poi un altro problema, di carattere sociale: il provvedimento metterà in difficoltà le classi meno agiate che usano l’auto per lavoro; oggi l’auto elettrica non è certo il prodotto per l’operaio che usa la macchina per andare in fabbrica. Probabilmenbte il prezzo diminuirà ma è ragionevole pensare che non possa avvicinarsi più di tanto al prezzo di un’auto con motore a scoppio;
  • si prospetta, infine, il rischio di una notevole dipendenza dalla Cina non solo per materie prime e batterie ma anche per il prodotto finito: le auto prodotte in Cina avranno un’elevata competitività di prezzo basata sul fatto che la Cina ha la leadership mondiale sulla disponibilità dei metalli per le batterie e il quasi monopolio sulla raffinazione dei metalli stessi. La Cina è inoltre leader mondiale nella produzione di batterie e ha un vantaggio di scala: già adesso infatti l’industria cinese produce la metà delle vetture elettriche generate in tutto il mondo. Quindi è molto probabile che il provvedimento finirà con il favorire l’industria cinese.

Non si può certamente concludere che all’interno della Commissione, del Consiglio e del Parlamento Europeo vi siano persone ingenue che danno soluzioni semplici, non risolutive, a problemi complessi. Allora bisogna cercare di mettere a fuoco una ratio del provvedimento che sia più articolata e sia utile a giustificare una decisione che palesemente non serve allo scopo dichiarato, se non in misura irrisoria. Forse il Regolamento non guarda soltanto al problema ambientale. E, forse, seguendo una traccia interpretativa complementare, possiamo intuire che il Regolamento, in realtà, costituisce una soluzione complessa ad un problema complesso che non si esaurisce nel solo obbiettivo ambientale.

2. Se un provvedimento non serve, allora serve a qualcos’altro.

Al fine di tracciare un percorso interpretativo, ho trovato molto utili e illuminanti alcune dichiarazioni di esponenti degli organi europei.

Nel corso di una recente intervista a Sky TG 24 Economia, il Commissario Europeo al Mercato Interno Thierry Breton ha dichiarato: “il regolamento non comporta che l’industria europea debba smettere di produrre motori endotermici perché il resto del mondo ne avrà ancora bisogno, e l’UE potrà continuare ad esportare ogni anno 5 milioni di vetture con motore a scoppio al di fuori dell’Europa nel continente africano, in India, in Asia e anche in America del sud”.

Insomma, le auto prodotte in Europa devono avere emissioni zero se circolano sulle nostre strade ma possono inquinare liberamente fuori dai nostri confini. Ma allora, e ce lo dice un esponente della Commissione Europea, l’obbiettivo non è ridurre l’anidride carbonica nell’atmosfera o, quanto meno, non è l’unico obbiettivo e non è nemmeno l’obbiettivo principale.

Nel corso della lectio magistralis tenuta in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, Frans Timmermans, vice Presidente della Commissione Europea, ha lanciato un allarme: “mentre noi stiamo discutendo su cosa fare, le case automobilistiche cinesi nel 2023 porteranno in Europa 80 nuovi modelli di vetture elettriche“. Sottolineo le parole del vice Presidente della Commissione Europea: mentre noi stiamo discutendo, i cinesi sono alle porte (sembra di sentire Tito Livio: dum Romae consulitur Saguntum expugnatur). Continua Timmermans: “se vogliamo un futuro per l’industria dell’automobile in Europa dobbiamo muoverci. Il futuro sono le macchine senza emissioni di CO2”. Ripeto quanto dice Timmermans: se vogliamo un futuro per l’industria dell’automobile in Europa dobbiamo muoverci.

Dobbiamo muoverci, anche perché stiamo assistendo ad un altro imminente pericolo: le case automobilistiche europee potrebbero avere interesse a delocalizzare gli impianti industriali negli Stati Uniti dove beneficerebbero degli straordinari incentivi (369 miliardi di dollari per progetti industriali che riducono l’emissione di CO2) messi in campo dai provvedimenti assunti dall’amministrazione di Biden con l’Inflation Reduction Act. A seguito del provvedimento americano, la Volkswagen ha già rinunciato al progetto di costruire una mega fabbrica di batterie nell’Europa dell’est per impiantarla, invece, negli USA dove potrebbe ricevere fino a 10 miliardi di dollari di sovvenzioni. Insomma, rischiamo di creare PIL e occupazione negli USA anziché in Europa.

Ecco dunque cosa pensano a Bruxelles: il futuro è l’auto elettrica e dobbiamo muoverci. Dobbiamo metterci in grado di essere competitivi nei confronti degli Stati Uniti e della Cina. Dice Timmermans: abbiamo perso tempo, abbiamo commesso errori.

Quali errori? Ce lo dice lo stesso Timmermans in una recente intervista a Le Monde (qui la traduzione) “l’errore che abbiamo commesso è stato quello di non avere una politica industriale europea; per troppo tempo abbiamo pensato che il mercato avrebbe risolto tutto”.

 Sottolineo: per troppo tempo abbiamo pensato che il mercato avrebbe risolto tutto. Un’ammissione non da poco. Equivale a dire: se guardiamo indietro dobbiamo riconoscere che per decenni abbiamo sbagliato; abbiamo creduto a dogmi rivelatisi inefficaci e adesso dobbiamo cambiare paradigma. Abbiamo vissuto per decenni dentro una bolla ideologica, il fondamentalismo di mercato, mentre i nostri grandi concorrenti andavano in un’altra direzione: quella della subordinazione dell’economia all’interesse pubblico fino a sfociare, se necessario, nel dirigismo e nel protezionismo. E adesso la realtà presenta il conto all’ideologia.

Ecco perché l’Unione è costretta ad assumere due provvedimenti che sconfessano, che rinnegano, due principi fondativi sui quali è costruita l’integrazione europea: il primato del mercato nei confronti dello Stato e il divieto degli aiuti di Stato alle imprese in quanto lesivi della libera concorrenza. L’ideologia sulla quale è stata costruita l’integrazione europea, fin dal Trattato di Roma del 1957, ha predicato: lo Stato stia al margine del mercato, non si intrometta nelle dinamiche della domanda e dell’offerta; si occupi piuttosto di stabilire leggi e regole che facciano funzionare il mercato. A quel punto saranno la concorrenza e i prezzi a guidare l’economia verso le scelte ottimali. Ma lo Stato non faccia scelte.

Ecco quindi che l’UE, rinnegando principi fondativi, entra a gamba tesa nelle dinamiche di mercato con un provvedimento che limita la libera iniziativa economica e fa una scelta dirigistica, una scelta che sposta il pendolo dell’economia dal mercato verso lo Stato. Si intromette in un campo che dovrebbe essere di pertinenza del management aziendale; dovrebbe essere il campo delle scelte aziendali di fondo, delle scelte strategiche, e addirittura l’UE non si limita semplicemente ad indicare un obbiettivo ma addirittura impone alle imprese la scelta della tecnologia per raggiungere l’obbiettivo e indica anche i tempi, tempi strettissimi, entro i quali le imprese devono adeguarsi al piano governativo.

E, in parallelo, non potendo sovvenzionare direttamente le imprese automobilistiche perché, diversamente dalla Cina e dagli Stati Uniti, non dispone di un adeguato bilancio pubblico accentrato, autorizza i Paesi membri ad erogare aiuti di Stato alle imprese.

Insomma, l’UE fa un’inversione ad U rispetto ai propri principi fondativi e, allora, ci si deve porre una domanda: possiamo pensare che gli organi comunitari rinneghino i dogmi sui quali è costruita l’architettura istituzionale europea e che lo facciano con l’obbiettivo di ridurre di un’inezia l’emissione di CO2?

No, lo fanno perché il settore automobilistico europeo pone una questione molto semplice: se non reggiamo il confronto con Cina e Stati Uniti sulla macchina del futuro mettiamo a rischio uno dei più importanti settori industriali europei. Un settore che, come indicato da Luca de Meo amministratore delegato della Renault, pesa molto sul PIL europeo (8%) e sull’occupazione europea (13 milioni di posti di lavoro, pari al 17% della popolazione attiva in Europa). Per reggere il confronto con la Cina e con gli Stati Uniti, le case automobilistiche europee devono fare investimenti di grandi dimensioni sui processi produttivi dell’elettrico e perciò reclamano fondi pubblici, così come ricevono i loro concorrenti negli Stati Uniti e in Cina. E, comunque, questi investimenti si giustificano in termini economici soltanto se ci sarà una adeguata domanda di auto elettriche. Non basta investire negli impianti, produrre le auto elettriche e renderle disponibili presso i concessionari; è necessario che la produzione si traduca in fatturato e generi cash flow in misura adeguata a ripagare gli investimenti e ad assicurare, in tal modo, la continuità aziendale. Insomma, la domanda di auto elettriche deve essere garantita e non può essere lasciata all’incertezza delle dinamiche di mercato.

Ecco perché l’Unione Europea apre agli aiuti di Stato a sostegno degli investimenti ed ecco perché, in futuro, se vorremo acquistare un’auto nuova potremo scegliere soltanto un’auto elettrica: la domanda sarà garantita.

Insomma, all’ombra di argomentazioni senz’altro nobili e meritevoli di ogni attenzione si profila una guerra commerciale mondiale e si intravedono fortissimi interessi, interessi di singoli Stati e interessi delle loro grandi imprese automobilistiche. Transizioni ecologiche e transazioni economiche si muovono congiuntamente ma, come accade sempre nell’Unione Europea, la direzione del percorso e il passo di marcia sono decisi dagli interessi economici.

Questo articolo ripropone, con aggiustamenti, la relazione introduttiva che ho presentato il 4 aprile scorso al Convegno “Transizione energetica: l’auto del futuro debve essere elettrica?” organizzato dall’Associazione “Italia a confronto”. QUI il video dell’intero convegno.

L’articolo è stato pubblicato da La Fionda il18.04.2023 https://www.lafionda.org/2023/04/18/transizioni-ecologiche-e-transazioni-economiche/

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