La Bce non rimette a noi i nostri debiti come invece noi li rimettiamo ai nostri debitori

La finestra di Overton sul tema della cancellazione del debito pubblico nel bilancio della Bce si sta velocemente spostando. Si è allontanata dall’iniziale stadio dell’inconcepibilità (è inaccettabile, non se ne può nemmeno parlare), ha raggiunto lo stadio della reazione radicale (se ne parla per stroncare, è vietato e tecnicamente non agibile) e ora sta entrando nella fase dell’auspicabilità (esplicite posizioni favorevoli da parte di economisti autorevoli).

L’evoluzione richiamata va in parallelo con le crescenti rassicurazioni della Bce in merito all’intenzione di prolungare nel tempo l’attuale politica di acquisto di titoli dei debiti pubblici. Infatti, sottraendo titoli dal flottante nelle mani del mercato, la Bce dà luogo ad un congelamento, ad una neutralizzazione del debito che corrisponde, di fatto, ad una cancellazione temporanea.

A seguito dei provvedimenti e delle dichiarazioni della banca centrale, si va sempre più consolidando l’aspettativa che la neutralizzazione sarà prolungata nel tempo fino a diventare una quasi-cancellazione, se non una cancellazione definitiva, come il buon senso suggerisce. Anche se continua ad essere rilevato contabilmente, un debito sul quale non si pagano interessi (la banca centrale li retrocede allo Stato emittente), e che viene sistematicamente rinnovato alla scadenza, cessa di essere un debito.

Dopo la proposta della Lega, allora commentata dai media come “sconcertante” e giudicata nemmeno meritevole di attenzione dagli economisti mainstream, il passaggio rilevante successivo è stato attivato dalla dichiarazione di Sassoli che ha provocato la radicale e irridente opposizione di molti economisti.  Ora siamo arrivati allo stadio dell’autorevole sostegno all’idea con argomentazioni che smontano la tesi della non fattibilità tecnica e riconducono il tema all’ambito della volontà politica e alla natura ideologica delle ragioni dell’opposizione.

Rilevanti interventi a supporto sono venuti recentemente dalla lettera sottoscritta da Thomas Piketty e da oltre 150 economisti di 13 diversi paesi (“I cittadini europei stanno scoprendo che quasi il 25% del debito pubblico dei loro Paesi è oggi detenuto dalla loro banca centrale; il che significa che devono a loro stessi il 25% del loro debito”) e dagli autorevoli sostegni di Leonardo Becchetti e Pasquale Scaramozzino (“il debito sarebbe come cancellato se l’impegno della Bce fosse permanente e non temporaneo”) e di Paul DeGrauwe (“finché i titoli di Stato sono nel bilancio della Bce non esistono più dal punto di vista economico”).

Anche Christine Lagarde, affermando che la cancellazione sarebbe contraria allo spirito dei trattati, ha implicitamente riconosciuto che l’ostacolo non ha natura tecnica. In realtà, come indicato dall’appello degli economisti, nessuna norma dei Trattati contempla la cancellazione e nessuna norma la vieta. In ogni caso, non sarebbe certo l’ostacolo normativo a fermare la Bce ove si trattasse di salvare l’euro da se stesso e dalle sue carenze progettuali. Lo sta facendo e potrebbe continuare lungo la stessa strada: dal 2015 con il QE e ora con il PEPP, con il beneplacito della Corte di Giustizia, la Bce sta di fatto aggirando le norme dei trattati che vietano il finanziamento degli Stati.  

In realtà, la riduzione dei debiti pubblici ad opera della Bce non richiede necessariamente la vera e propria definitiva cancellazione: un effetto equivalente (quasi-cancellazione) si realizza in presenza di fondate aspettative degli operatori in merito alla prolungata durata della neutralizzazione. Attualmente non c’è dubbio che la Bce continuerà a rinnovare alla scadenza i titoli già acquisiti e continuerà ad affettuare ulteriori acquisti, come previsto dai programmi deliberati. Per tutta la durata della pandemia, il debito rilevante ai fini delle valutazioni di sostenibilità nel breve periodo potrà essere quantificato al netto dei titoli detenuti dalla Banca centrale, come se questi fossero cancellati.  

A titolo di esempio, richiamo quanto è stato dichiarato in una videoconferenza con la stampa da Nicola Mai portfolio manager sovereign credit analyst di Pimco, uno dei maggiori fondi internazionali specializzati in investimenti obbligazionari, come è stato riportato da Start Magazine: “Riteniamo che i titoli di debito italiani rimarranno sul bilancio Bce molto a lungo, forse per sempre – ha detto Mai – a meno di un improvviso e per ora improbabile forte aumento dell’inflazione che costringa la Bce a dare il via a un inizio di restringimento della politica monetaria. Ma è uno scenario che al momento appare improbabile perché l’inflazione è da anni sotto il target e ci rimarrà a lungo”. In sostanza il debito italiano nel bilancio della Bce risulta temporaneamente neutralizzato dall’impegno assunto dalla stessa banca centrale di procedere al riacquisto quando i titoli attualmente detenuti giungeranno a scadenza.

Al fine di dare fondamento e rassicurazione alle aspettative non é necessario che la Bce adotti formali provvedimenti di politica monetaria. La politica della banca centrale si fa anche e in larga misura con le parole (forward guidance), finalizzate ad indirizzare le scelte degli investitori attraverso la comunicazione al mercato delle proprie intenzioni. Per questo motivo le dichiarazioni sono ponderate con la massima attenzione e le singole parole sono soppesate.

Attualmente la Bce dichiara che la neutralizzazione continuerà per un “esteso” periodo di tempo, fino a quando la ripresa sarà sostenibile e il contenimento del coronavirus avrà avuto successo, “anche in un contesto macroeconomico in miglioramento” (così Philip Lane capoeconomista e membro del Board in un discorso tenuto il 25.02.21 presso la Consob portoghese). La Bce ha fatto intendere di essere pronta a tollerare un aumento dell’inflazione e a mantenere contenuti i tassi di interesse lungo l’intera curva dei rendimenti preservando anche i rendimenti delle scadenze più lunghe dall’influenza che potrebbe essere esercitata dall’aumento dei tassi dei titoli di stato americani.

Pur considerando i passi in avanti percorsi dalla finestra di Overton, è ancora ampia la distanza da colmare tra la neutralizzazione e la quasi-cancellazione formalmente protratta nel lungo periodo che, per essere efficace,  dovrebbe essere riconosciuta non solo dal mercato ma anche dalle regole europee in materia di bilanci pubblici. Come più volte accaduto nella storia dell’Unione Europea, assisteremo ad un braccio di ferro tra buon senso e ideologia, tra soluzioni razionali e dogmi, e non è escluso che la pandemia possa generare un ulteriore rimescolamento delle carte dell’ortodossia economica, oltre a quello che ha già indotto a sospendere i principali capisaldi dell’architettura progettata a Maastricht trent’anni fa.    

In questo contesto, un altro avanzamento della finestra di Overton potrebbe trovare ulteriore consenso e sostegno quando si manifesterà in tutta la sua evidenza un paradosso che è stato fino ad ora poco esplicitato: non si cancella il debito pubblico nel bilancio della Bce (scelta che avrebbe soltanto effetti positivi per gli Stati e nessuna conseguenza negativa per la gestione della banca centrale) ma si cancellerà il debito privato, quello delle imprese, e lo si farà ponendo l’onere a carico della collettività.

Il paradosso consiste nel fatto che la cancellazione del debito privato genererà automaticamente un corrispondente aumento del debito pubblico a sua volta non cancellabile. E’ vero che è interesse collettivo tenere in vita l’economia durante il periodo della pandemia ed è giusto traslare il rischio di insolvenza dai bilanci delle imprese al bilancio dello Stato, ma perché allora non traslare ulteriormente l’onere dal bilancio pubblico al bilancio della banca centrale che, per di più, potrebbe assorbirlo senza conseguenze? La banca centrale è infatti l’unico soggetto economico le cui passività non sono debiti ed è l’unico creditore che non ha nulla da temere dall’insolvenza dei suoi debitori potendo operare anche con capitale netto negativo. Lo ha confermato la stessa Bce in un paper (ECB Occasional Paper 169, April 2016, pag.14) nel quale si afferma che “le banche centrali sono immuni da insolvenza per la loro capacità di creare moneta e pertanto possono operare anche con capitale netto negativo”.

Lo stesso Draghi, nel citatissimo articolo sul Financial Times del 25 marzo 2020, auspica la cancellazione del debito privato ma nulla dice a proposito della cancellazione del debito pubblico anche se mette in evidenza che questo aumenterà in misura rilevante proprio come conseguenza della cancellazione del debito privato. “La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato – e l’indebitamento necessario per colmare il divario – dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello stato. Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato … le banche devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sotto forma di garanzie di stato su prestiti e scoperti aggiuntivi”.

I provvedimenti assunti dal governo italiano nel corso del 2020 sono andati nella direzione indicata da Draghi: la parte più consistente dei sostegni alle imprese ha preso la forma di finanziamenti bancari garantiti dallo Stato che, in questo modo, ha assunto l’obbligo di rimborsare le banche in caso di insolvenza delle imprese.

 L’onere a carico dello Stato non si è ancora reso palese perché con una forzatura delle regole contabili di finanza pubblica si è potuto evitare di far gravare la stima delle insolvenze sull’ “indebitamento netto” del 2020 (quello che viene definito il “deficit” e che vale ai fini del fiscal compact). Con l’obbiettivo di non aumentare nell’immediato il deficit e il debito per gli importi corrispondenti alle insolvenze attese, è stata effettuata la contabilizzazione a carico del “saldo netto da finanziare” che considera le passività per competenza e non per cassa. In questo modo il problema è stato spostato in avanti nel tempo e si tradurrà in deficit e nuovo debito nei prossimi anni quando si verificheranno gli esborsi statali a beneficio delle banche. Per il momento, il deficit e il debito indotti dai provvedimenti del governo sono stati messi sotto il tappeto, ma si è innescata una bomba ad orologeria che è destinata ad esplodere quando, con il ritorno alla normalità, si manifesteranno le insolvenze delle imprese e le banche procederanno all’escussione delle garanzie.

Accadrà così che il debito privato cancellato si trasformerà in debito pubblico che non si vuole cancellare. Una condizione che sembra riproporre un antico vizio del capitalismo: la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite.

articolo pubblicato da La Fionda, 4 Mar 2021 https://www.lafionda.org

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