Un aggiornamento al post del 17 marzo sul Recovery Plan della Germania e sulla ratifica del Recovery Fund da parte del Bundestag

Secondo l’Handesblatt, il maggiore quotidiano economico tedesco, la Commissione europea ha ridimensionato le sue contestazioni in merito al Recovery Plan presentato dalla Germania e respinto al mittente. Le richieste di aggiustamento riguardavano l’adozione di un ventaglio ampio di misure per migliorare il sistema pensionistico; l’abolizione di una misura fiscale in merito alla ripartizione del reddito fra coniugi che, secondo i tecnici europei, è un meccanismo che disincentiva a lavorare più ore; la liberalizzazione di alcune professioni ancora troppo regolamentate, specie nel settore dell’artigianato e tra gli architetti (come indicato da Pierluigi Mennitti, Start Magazine, 24.03.2021).

Ma, nel frattempo, un’altra tegola si abbatte sul programma finanziario europeo per il contrasto della crisi economica (NGEU), programma che presuppone la ratifica, da parte dei 27 paesi membri, della decisione del Consiglio UE in merito al bilancio dell’Unione per i sette anni 2021-2027. La ratifica da parte dei 27 parlamenti è già di per sé un iter burocratico lungo e complesso: nel 2014 furono necessari 2 anni e 4 mesi per concludere la procedura. Questa volta la questione è ancora più complessa perché la ratifica implica anche l’approvazione dei maggiori contributi dei singoli paesi a fronte del debito di 750 miliardi che la Commissione dovrà attivare per finanziare il NGEU. Fino ad ora hanno proceduto alla ratifica soltanto 14 parlamenti. L’ultimo di questi è stato il parlamento tedesco nei giorni scorsi.

La tegola è stata lanciata dalla Corte Costituzionale tedesca che ha emesso un’ordinanza di sospensione della ratifica dopo che questa era stata approvata dal parlamento. L’ordinanza impone al Presidente della Repubblica di non firmare la legge approvata dal Bundestag e dal Bundesrat a seguito di un ricorso in via d’urgenza presentato da Bernd Lucke economista e fondatotre di AFD (recentemente fuoriuscito dal partito) insieme ad altri 2.200 cittadini. Ora il Presidente dovrà attendere il pronunciamento dei giudici della Corte.

Il ricorso contesta il vizio di incostituzionalità del NGEU dovuto al fatto che l’UE avrebbe travalicato le proprie competenze stabilite dai trattati e, con questo, avrebbe esposto lo stato tedesco al rischio di esborsi, a carico del proprio bilancio, sui quali la competenza esclusiva appartiene al parlamento tedesco. In altre parole, i contribuenti tedeschi potrebbero essere chiamati ad esborsi finanziari dovuti a decisioni assunte non dal loro governo e dal loro Parlamento ma da altri Stati. E ciò in contrasto con l’art.110 della Legge Fondamentale tedesca che stabilisce il diritto inalienabile del Parlamento in merito al controllo di ogni uscita di bilancio.

Il problema riguarda la capacità dell’UE di indebitarsi e, secondo i ricorrenti, non sarebbe legittimata a farlo a norma dei trattati istitutivi. Questi prevedono che il bilancio europeo sia alimentato esclusivamente dai contributi dei singoli Stati e non da fonti di debito (art. 311 TFUE). In particolare, viene contestato il fatto che, in caso di inadempienza di uno Stato membro nel rifondere i finanziamenti ricevuti, l’onere ricadrebbe pro quota sugli altri Stati in palese violazione del principio di no bail out che esclude la condivisione dei rischi tra i paesi membri e sancisce l’esclusiva responsabilità di ogni Stato sui propri debiti, come previsto dall’art 125 del TFUE. Viene inoltre contestata la possibilità offerta agli Stati di non contabilizzare come debito la quota grant del Recovery Fund e ciò in palese contrasto con i vincoli stabiliti dal Trattato di Maastricht con riferimento al rapporto tra debito e PIL. Viene infine contestata la possibilità di giustificare il NGEU con la necessità di attivare provvedimenti eccezionali legati alla calamità naturale (art.122 TFUE), e ciò in ragione del fatto che il NGEU prevede principalmente il finanziamento della transizione ambientale e digitale finalità che nulla hanno a che fare con gli effetti economici della pandemia.

Ancora una volta, come già avvenuto in occasione del recente pronunciamento della Corte tedesca sul Quantitative Easing, viene a galla l’incerta gerarchia delle fonti giuridiche tra diritto comunitario e diritto interno agli stati. E’ anche molto probabile che la Corte, ove ravvisi la non infondatezza delle questioni sollevate in merito all’interpretazione del diritto europeo, ritenga necessario sottoporre il problema all’esame della Corte di Giustizia Europea allungando ulteriormente i tempi per l’erogazione dei fondi. Ma il problema va ancora più al cuore del futuro dell’Unione Europea in ragione del fatto che la Germania appare sempre più ferma nell’interpretare le norme costituzionali come una linea rossa invalicabile che impedisce l’evoluzione verso un’unione dei trasferimenti tra gli Stati, condizione necessaria perché l’assetto dell’unione assuma una veste federalista ed inizi a muoversi nella direzione degli Stati Uniti d’Europa.

Non sappiamo se la Corte affosserà il Recovery Fund. E’ tuttavia molto probabile che il suo pronunciamento affosserà l’idea che il Fondo possa trasformarsi dopo la pandemia, da iniziativa una tantum, a strumento stabile e strutturale che realizzi l’unione fiscale facendola passare dalla porta di servizio (W. Munchau, eurointelligence.com). Se sarà questo l’esito del pronunciamento della Corte, l’Unione rimarrà ancora per molti anni un progetto incompleto, fragile, strutturalmente esposto alle crisi e strutturalamente debole nel contrastarle. Ed è un progetto incompleto perché non esiste la volontà politica di completarlo, in particolare non esiste e non è mai esistita in Germania dove unione fiscale, trasferimenti, debito comune sono assolutamente inaccettabili per gli elettori tedeschi. Gli euro-sognatori e gli idealisti dello Stato federale europeo dovrebbero prendere atto della realtà: per la Germania, l’Unione Europea è uno strumento per realizzare i propri interessi. La trasformazione da unione monetaria a unione fiscale e politica comporterebbe il trasferimento ad altri Stati di parte delle imposte versate dai contribuenti tedeschi; e questo non rientra negli interessi del popolo tedesco. Emerge, nella sostanza, che l’UE sta cercando di assolvere un compito per il quale non è stata strutturata e non c’è da meravigliarsi se, nel tentativo, incontra ostacoli e difficoltà.

Questa preclusione assume un rilievo ben più importante, per il futuro dell’Unione, rispetto al problema contingente del ritardo dei fondi del NGEU. Questi, in ogni caso, anche a causa del ricorso alla Corte, rischiano di arrivare, tardi e insufficienti, quando la pandemia sarà soltanto un brutto ricordo e nel momento in cui altre aree economiche dotate di una più efficiente e rapida capacità decisionale staranno già festeggiando il ritorno alle condizioni economiche del 2019.

Sta inoltre emergendo che le forti condizionalità legate ai prestiti proposti dall’Unione sembrano indurre i paesi membri a preferire l’indebitamento diretto con il mercato anche a costo di pagare tassi di interesse più alti. Come indica G. Chiellino (24 Ore 27.03.2021), l’Italia per ora è l’unico paese intenzionato ad utilizzare l’intera quota che le è stata assegnata. Altri paesi, soprattutto quelli del Nord e la Francia, non prevedono di ricorrere alla componente prestito e si limitano a richiedere soltanto la quota a fondo perduto. Alcuni paesi come la Spagna e la Germania sembrano orientati a chiedere soltanto una parte limitata dei prestiti.

Molti paesi sono anche disincentivati dalle difficoltà che incontrano nel rispettare la complessità delle regole cui i piani nazionali dovrebbero attenersi tanto che, a tutt’oggi, nessuno dei piani presentati soddisfa pienamente i requisiti del regolamento. Un ostacolo difficilmente superabile sembra essere legato ai tempi di esecuzione delle opere che dovranno essere realizzate in soli cinque anni, pena la mancata erogazione dei fondi. Come ha precisato il Ministro Giannini, se dovessimo decidere di costruire una ferrovia dovremmo anche impegnarci a farci passare sopra i treni entro il 2026, cosa che appare come una sfida persa in partenza.

Sembra quindi che non soltanto i fondi del MES, che nessun paese ha richiesto, ma anche i fondi del NGEU non trovino piena corrispondenza con le esigenze degli stati membri. Il sostegno europeo si tradurrà pertanto in uno stimolo di soli 390 miliardi, spalmati su 27 paesi e rateizzati in sei anni, da rimborsare con maggiori contributi al bilancio dell’UE o con maggiori imposte. Stesso discorso vale per i fondi del SURE: soltanto 16 paesi su 27 ne hanno fatto richiesta e soltanto 8 per importi superiori al miliardo di euro.

Si tratta di importi che, se confrontati con quanto sta facendo il governo americano, destano preoccupazione per la competitività dell’economia dell’eurozona. Nel 2020 gli stanziamenti americani ed europei non erano molto diferenti, ma ora il divario potrebbe assumere dimensioni enormi considerando che l’Amministrazione Biden sta per proporre all’approvazione del Congresso un piano di sviluppo da 3.000 miliardi di dollari.

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