Il concetto di “concorrenza” fra teoria economica e ideologia liberista

Questa nota è in corso di pubblicazione presso Rogas edizioni, nell’ambito delle iniziative editoriali di lafionda.org, in un libro collettaneo che avrà per titolo “Le parole del nemico. Lessico del neoliberalismo

La concettualizzazione dei benefici legati al dispiegarsi della libera concorrenza si colloca nel nucleo di base della teoria economica prevalente e, nell’ambito di quest’ultima, ha svolto una importante funzione apologetica delle ragioni del libero mercato e della limitazione dell’intervento pubblico nell’economia. Questa funzione di legittimazione dell’ordine capitalistico e dell’ideologia liberale viene evidenziata in questa breve nota attraverso una duplice chiave interpretativa. 

La prima è costituita dall’evoluzione del modo in cui la teoria economica si è rapportata nel tempo al tema del conflitto distributivo. La seconda deriva dalla considerazione marxiana che il pensiero economico dominante serva gli interessi delle classi dominanti e lo faccia anche contribuendo, per quanto di sua competenza, all’elaborazione di una coltre ideologica che viene stesa sulla realtà sociale al fine di proporre di quest’ultima una rappresentazione utile a legittimare interessi di parte e con l’obbiettivo di orientare verso di essi i comportamenti effettivi.

  1. La concorrenza nell’economia classica e il mito della mano invisibile

La centralità della concorrenza nell’analisi economica è presente fin dalle origini dell’economia politica, da quando fra il XVIII e il XIX secolo il pensiero degli economisti classici ha acquisito una propria identità disciplinare autonoma rispetto ai temi della filosofia politica e morale dai quali è derivato. L’economia politica nasce in parallelo alla rivoluzione industriale con l’obbiettivo di descrivere l’emergente modo di produzione capitalistico e lo fa in positivo proponendone la legittimazione, sul piano della concettualizzazione, in sintonia e a supporto del pensiero politico liberale.

L’economia classica assume che, in un contesto di risorse scarse, le persone interagiscono con gli altri soggetti in regime di concorrenza, concetto al quale viene attribuita una valenza positiva legata alla sua capacità di contemperare interessi privati e interessi collettivi. L’economia politica classica si fa carico infatti di un progetto intellettuale molto ambizioso: argomentare che il libero esercizio della rivalità concorrenziale, animato dall’interesse individuale, è in grado di tradursi nel benessere sociale collettivo favorendo la massimizzazione della produzione di beni e servizi e, quindi, facendo crescere la ricchezza delle nazioni. Lo stesso significato letterale del lemma “con-correre” vuole dare l’idea che gli imprenditori corrono individualmente ognuno per il proprio interesse ma, nello stesso tempo, corrono tutti insieme per un obbietivo comune, l’interesse collettivo a beneficio dell’intero sistema economico.  

Il pensiero dei classici si è pertanto incentrato sulle capacità del mercato e della concorrenza di generare, nel migliore dei modi possibili, la crescita delle dimensioni della “torta” e, a tal fine, ha sviluppato idee originali che, ancora oggi, stanno alla base del pensiero economico contemporaneo.

Altro è il problema della partizione della torta e della valutazione della congruità e dell’equità della dimensione e della distribuzione delle singole “fette”. È ben presente, nel pensiero dei classici, la relazione inversa tra salari e profitti. Ed è ben presente la pretesa del capitale di appropriarsi del “sovrappiù” (Marx lo definiva plusvalore, oggi si preferisce parlare di extra-profitti) una volta garantito il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie. Tuttavia, in riferimento a questi problemi, l’economia classica rimane “politica” e non può che evidenziare come la soluzione del conflitto distributivo dipenda dai rapporti di forza tra gruppi sociali. Pertanto sul fronte della distribuzione del reddito l’analisi economica classica si ferma e lascia campo alla politica. Di fronte alle macroscopiche disuguaglianze e sperequazioni dell’epoca, riconosce che la distribuzione effettiva è determinata dai rapporti di forza tra gruppi sociali e riconosce anche la disparità di potere di cui dispongono i proprietari dei mezzi di produzione rispetto ai lavoratori. La lotta di classe era pienamente contemplata nel pensiero di Smith e di Ricardo, i fondatori dell’economia politica, e i loro scritti lasciavano pertanto aperti argomenti molto pericolosi per la stabilità dell’ordine capitalistico in un contesto sociale che iniziava a prendere coscienza dell’iniquità distributiva connaturata al modo di produzione che si stava affermando.

Richiamata l’ottica con la quale il pensiero dei classici guarda ai temi, da un lato, della produzione della ricchezza e, dall’altro, della sua distribuzione, si deve rilevare che alcuni concetti basilari costituiscono, ancora oggi, i fondamenti del pensiero economico dominante. All’origine del comportamento economico individuale viene presupposta, in realtà in modo assolutamente apodittico, una naturale pulsione che spingerebbe le persone allo scambio di beni e servizi finalizzato alla massimizzazione dell’utilità personale. Una pulsione che è intesa come fosse una motivazione universale, e quindi naturale, dell’agire economico e non un fenomeno storicamente determinato e strettamente connesso al funzionamento dell’economia capitalistica (Polanyi docet). Questa pulsione alimenta il progresso economico che trova le migliori condizioni di crescita nel libero mercato, nella concorrenza, nella divisione del lavoro e nella specializzazione produttiva che, a sua volta, cresce con l’ampliamento delle dimensioni dei mercati.

Il progredire della specializzazione pone tuttavia un problema: se la produzione viene parcellizzata tra una moltitudine di imprese, ognuna orientata al proprio specifico interesse, come si può evitare il caos? Come si può ottenere un coordinamento delle decisioni individuali che consenta al sistema economico di evitare eccessi di produzione di alcuni beni e carenze di altri rispetto alla domanda potenziale e ai bisogni dei consumatori, eccessi o carenze che lascerebbero insoddisfatti i produttori o i consumatori? Come è possibile che dal comportamento egoistico individuale possa derivare il pieno utilizzo della capacità produttiva e l’ottimizzazione dell’allocazione delle risorse? e, quindi, si possa pervenire ad una condizione di equilibrio, un punto di incontro tra gli opposti interessi dei produttori e dei consumatori; insomma, un benessere collettivo che sia il migliore possibile per tutti.

La risposta degli economisti classici si è limitata alla semplice descrizione di fenomeni che favoriscono il coordinamento: la concorrenza, la dinamica dei prezzi e il loro valore segnaletico. Ma l’interazione tra questi fenomeni non è stata formalizzata e dimostrata secondo logica razionale e rigore metodologico. E ciò per il semplice motivo che questo complesso fenomeno di eterogenesi dei fini, che porta l’interesse individuale a generare un risultato di interesse collettivo non perseguito intenzionalmente e cosapevolmente, sfugge alla dimensione dell’analisi economica e non può che essere ricondotto ad una dimensione meta-razionale. Il coordinamento risulterebbe come effetto di meccanismi di mercato imperscrutabili, nascosti all’interno di una black box che è sottesa ed implicita nel funzionamento del mercato stesso. Ancora oggi i manuali di economia politica presentano, in prima istanza, le magiche virtù del mercato e della concorrenza facendo ricorso ad una narrazione fantasiosa estrapolata, con evidente forzatura secondo molti autori, dagli scritti di Adam Smith. Si tratta del mito della mano invisibile che opererebbe misteriosamente celata all’interno dei meccanismi del mercato esercitando la magica capacità di trasformare comportamenti egoistici individuali in benessere collettivo.

Non c’è bisogno di una guida istituzionale che coordini il traffico delle produzioni e dei consumi per assicurare l’equilibrio ottimizzante e, anzi, si ritiene che un’autorità centrale pianificatrice non potrebbe riuscire nell’intento con lo stesso grado di efficienza e di efficacia. Il coordinamento è decentrato ed è implicito nei meccanismi di mercato. Non c’è bisogno di una pianificazione accentrata, c’è bisogno soltanto della concorrenza e della molla costituita dall’interesse individuale; al resto provvede la mano invisibile. La mano invisibile guida, implicitamente, una catena di relazioni che vanno dalla concorrenza all’impatto che quest’ultima esercita sulla dinamica dei prezzi e, infine, al valore segnaletico e informativo che i prezzi trasmettono ai produttori e ai consumatori.

Ogni produttore vorrebbe prezzi elevati per aumentare i propri profitti e ogni consumatore vorrebbe prezzi bassi per contenere i propri costi. Lo scambio può avvenire soltanto se le rispettive attese si aggiustano fino a trovare un punto di incontro in cui si determinano prezzi effettivi, prezzi di mercato. Questi ultimi guidano le scelte dal lato dell’offerta e dal lato della domanda. Orientano i produttori, in concorrenza tra loro, verso le attività in cui conviene investire e orientano le scelte dei consumatori, in concorrenza tra loro, nell’acquisto dei beni. A vantaggio di questi ultimi la dinamica dei prezzi, alimentata dalla concorrenza, porterebbe a calmierare i profitti facendoli convergere verso un valore medio. Infatti i capitali si sposterebbero verso i settori nei quali conviene aumentare la produzione, facendo diminuire i prezzi e, all’opposto, abbandonerebbero settori a basso rendimento con l’effetto di ridurre la produzione in eccesso e di far aumentare i prezzi. Prezzi e profitti convergerebbero, secondo il meccanismo dei vasi comunicanti, verso valori normali cioè quelli cui porterebbe naturalmente il mercato attraverso l’azione della concorrenza. Ai prezzi normali, le imprese produrrebbero esattamente le quantità (l’offerta) richieste dai consumatori (la domanda). Ogni bene prodotto verrebbe acquistato e avrebbe un solo prezzo in tutto il suo mercato e, per effetto della concorrenza, il prezzo sarebbe contenuto, con evidente beneficio per i consumatori, ad un livello minimale tale da consentire alle imprese di remunerare i fattori della produzione e niente più.

Questa narrazione giova evidentemente all’affermazione dell’ordine capitalistico perché dà una forte legittimazione al mercato come sistema organizzativo dell’economia. Una legittimazione di base. Ma, se ci mettiamo dal punto di vista del capitale, si capisce che si potrebbe e si dovrebbe fare di più; si dovrebbe andare oltre i risultati del pensiero classico quanto meno per legittimare – ovviamente sempre riconducendola al benessere collettivo – anche la tendenza connaturata all’attività imprenditoriale di mettere dei limiti alle pretese del lavoro con riguardo al problema distributivo. Va in questa direzione un altro mito, quello della concorrenza perfetta elaborato nel quadro concettuale dell’economia marginalista.

2. L’economia marginalista e il mito della concorrenza perfetta

Gli interessi del capitale non potevano certo accontentarsi di elaborazioni teoriche che lasciano così tanto spazio e argomenti così forti alle ragioni dei lavoratori e alla soluzione politica del conflitto distributivo. Hanno perciò stimolato sviluppi della teoria economica che fossero in grado di dare, anche sul fronte della distribuzione del reddito, maggiore legittimazione scientifica e maggiore sostegno all’ordine capitalistico, almeno sul piano dottrinale, nei confronti della critica teorica e nei confronti delle rivendicazioni sociali.

Questo compito è stato svolto dalla teoria economica marginalista. Lo ha svolto elaborando la soluzione del problema all’interno di un mondo immaginario nel quale il concetto di concorrenza viene estremizzato fino al livello della purezza e della perfezione. Un mercato nel quale un numero molto elevato di soggetti di piccole dimensioni, e quindi non in grado di influire individualmente sul prezzo, dispongono di una piena informazione sul comportamento degli altri acquirenti e venditori e si scambiano un prodotto omogeneo, privo di differenziazioni.

In questo mitico mondo all’insegna della perfezione il problema del conflitto distributivo non richiede una soluzione politica legata al confronto tra rapporti di forza sociali. Il problema viene risolto semplicemente negando, attraverso eleganti rappresentazioni formali e con complesso rigore metodologico, l’esistenza stessa del conflitto. Lo fa, la teoria marginalista, elaborando paradigmi che risolvono il problema in modo oggettivo e senza alcun conflitto tra soggetti: se il mercato è libero di esplicare i propri effetti, e se ricorrono le condizioni della concorrenza perfetta, allora non c’è conflitto, non c’è confronto tra rapporti di forza espressi da classi sociali contrapposte. Il mercato perfettamente concorrenziale, se lo si lascia fare, è in grado di generare una distribuzione naturale del reddito, secondo razionalità e oggettività, ed è in grado di contemperare razionalità individuale e interesse collettivo, in conformità a leggi economiche universali, a-storiche e a-politiche, che indicano con precisione matematica quanta parte del reddito prodotto debba andare al lavoro e quanta parte al capitale. Una partizione naturale e ottimale, che accontenta tutti; meglio non si può fare. La politica ne stia fuori, lasci fare al mercato e si occupi di creare le condizioni per il libero esercizio della concorrenza. Ogni ostacolo alle leggi del mercato e ogni tentativo di forzare, in una direzione o nell’altra, l’equilibrante azione della concorrenza porterebbe a risultati sub-ottimali.

Gli sviluppi di questa teoria economica, che si auto-definisce neoclassica, hanno in realtà portato ad una cesura con il pensiero degli economisti classici, una discontinuità costituita dalla pretesa dell’economia marginalista di bastare a se stessa fino al punto di pretendere di espungere, dal mercato e dall’analisi economica, la dimensione politica e sociale e fino a diventare, in questo modo, il puntello dell’ideologia neoliberale che mira a realizzare non soltanto un’economia di mercato, ma molto di più: una società che si identifica nelle leggi del mercato, le fa proprie, fino al punto in cui le leggi del mercato diventano le leggi del comportamento sociale.  La politica scompare dal quadro di analisi lasciando pieno campo al lasciar fare al mercato, ma è evidente che l’elaborazione teorica sottende, essa stessa, una scelta politica pienamente conforme e strumentale, sul piano dei principi, all’ideologia neoliberale e agli interessi del capitale.

Parafrasando le parole di Carlo Galli “il neoliberismo è un’ideologia che nega di esserlo”, si potrebbe affermare che la teoria economica marginalista è un’economia politica che nega di essere politica mentre fa la scelta, del tutto politica, di attribuire alle virtù del mercato e della concorrenza la capacità di quantificare il compenso del lavoro, in modo oggettivo e naturale, esattamente al livello cui corrisponde il pieno utilizzo della capacità produttiva e la piena occupazione. Tutto ciò a condizione che sia eliminato ogni intralcio al libero mercato e che, come ogni merce, anche il lavoro abbia un prezzo flessibile in relazione alle dinamiche della domanda e dell’offerta.

3. Considerazioni conclusive

Le narrazioni proposte dall’analisi economica in tema di concorrenza non pretendono di fornire una descrizione della realtà effettiva e rispondono piuttosto ad un espediente metodologico, tipico della teoria economica, che consiste nell’immaginare una condizione di equilibrio ottimale, un mondo immaginario, che semplifica la realtà e aiuta a comprenderla, da utilizzare come parametro di riferimento al fine di poter individuare i fenomeni da contrastare, quelli che allontanano dall’equilibrio.

I modelli dell’equilibrio economico si prestano peraltro ad un uso che va oltre la funzione speculativa della realtà fino ad assumere una funzione normativa. Questa impostazione metodologica rende infatti sottile il confine tra scienza, che interpreta la realtà, e ideologia che si propone di elaborare una rappresentazione finalistica della realtà e pretende di modificare quest’ultima in ragione dei propri dogmi. Al punto che si può dubitare se sia l’economia mainstream a sconfinare nell’ideologia o se sia questa a travestirsi da scienza economica.

Nulla di nuovo: ogni società, ogni ordine politico così come il comunismo e il fascismo, anche l’ideologia liberista, si fonda su una determinata mitologia e da essa trae supporto, trae la capacità di auto-sostenersi offrendo un’interpretazione della realtà che dà un senso a se stesso e che propone un’auto-giustificazione nei confronti dei propri limiti, delle proprie contraddizioni e dei risvolti sociali che ne minacciano la sopravvivenza.

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