Qui si fa l’Europa o si muore

Qui si fa l’Europa o si muore. Parafrasando Garibaldi a Calatafimi, è questo il senso degli ammonimenti di due illustri sostenitori, senza se e senza ma, della moneta unica. Prodi e Monti concordano: l’intero progetto europeo potrebbe implodere se nemmeno davanti ad una tragedia comune, quale l’epidemia in corso, non si adottano provvedimenti all’insegna della solidarietà e della condivisione degli oneri.

Lo aveva detto chiaramente Azeglio Ciampi il giorno che precedette l’adozione dell’euro: “l’euro è soltanto l’inizio di un percorso … attenzione abbiamo unito le monete ma non l’Europa … se non portiamo avanti l’unione politica e istituzionale, questa zoppia, prima o poi farà crollare tutto” (La Repubblica 31.12.1998). Nei ventidue anni successivi, i passi avanti lungo il percorso di integrazione politica e fiscale sono stati molto modesti e, anche per questo, i risultati economici hanno ampiamente tradito le aspettative.

Non è questa la sede per approfondire l’analisi delle patologie congenite nel disegno dell’eurozona, la zoppia richiamata da Ciampi. Una letteratura economica sconfinata, e con contributi molto qualificati, ha messo in evidenza la fragilità di un progetto, mai prima sperimentato, di una moneta senza stato; un progetto politico fondato sui dogmi dell’ideologia liberista, congenitamente vulnerabile nei profili economici.

Si tratta di temi di rilevante complessità che, a mio modo di vedere, molto colpevolmente né i media, né la professione economica hanno adeguatamente divulgato. Grazie al Collegio Europeo, il 2 aprile dello scorso anno abbiamo avuto la possibilità di ascoltare a Palazzo Soragna una delle voci europee più qualificate nel sostenere il progetto di integrazione senza per questo esimersi dal dovere di denunciare il pericolo che la disfunzionale architettura dell’eurozona possa distruggere il progetto stesso. Una lezione memorabile quella di Paul DeGrauwe europeista da sempre e, proprio per questo motivo, raffinato studioso di quelli che lui definisce i “design failures”, le carenze progettuali dell’eurozona, cause della fragilità del progetto di fronte alle crisi economiche.

Con l’adesione al sistema istituzionale disegnato dal Trattato di Maastricht, i Paesi dell’eurozona hanno notevolmente ridotto la propria capacità di contrastare le ricorrenti crisi economiche perché hanno rinunciato alle leve di governo dell’economia di cui dispone ogni Stato pienamente sovrano: la politica monetaria, la politica valutaria, la politica di bilancio, la politica industriale. Queste leve sono state perse ma non sono state trasferite agli organi di governo dell’Unione Europea. E’ rimasta in vita soltanto la politica monetaria attribuita peraltro ad una banca centrale sui generis cui è proibito il finanziamento monetario degli Stati e non è in grado di intervenire in modo differenziato a sostegno dei singoli Paesi, secondo le diverse esigenze congiunturali.

In coerenza con l’ideologia liberista, i mercati finanziari possono spingere gli Stati verso il default se intravvedono squilibri e conseguenti possibilità di profitto. Un ribaltamento di ruoli: non sono più gli Stati a controllare i mercati finanziari, ma sono questi ultimi a disciplinare gli Stati.

Ecco perché l’euro ha rischiato di morire in giovane età. Aveva soltanto 8 anni nel 2007 quando la crisi finanziaria originata negli Stati Uniti ha portato sull’orlo dell’insolvenza Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia oltre alla Grecia che ha aggiunto specifiche cause ulteriori al proprio dissesto. Ed, ancora, ecco perché le necessarie manovre economiche attualmente in corso a carico dei bilanci pubblici esporranno in futuro gli Stati più deboli all’aggressione dei mercati finanziari.

L’Italia non potrà farcela con le proprie forze quando verranno ripristinati i vincoli europei ora sospesi, ma molto probabilmente non potranno farcela neanche la Spagna, il Portogallo, la Grecia e forse nemmeno la Francia, se non adottando ulteriori pesantissime manovre restrittive che non saranno sopportabili senza gravi conseguenze sociali e senza stravolgimenti politici.

Monti e Prodi, probabilmente fanno affidamento sul fatto che sia ancora realistico e praticabile quel percorso sopra indicato da Ciampi verso l’unione politica e fiscale, confidano che non si tratti soltanto di un sogno condannato a restare tale. Se non ora, quando? A sentire le dichiarazioni espresse in questi giorni, pare che il massimo passo che l’Unione Europea abbia la volontà politica di fare è l’allentamento, soltanto temporaneo, dei vincoli (potenziamento del quantitative easing e sospensione del pareggio di bilancio, del fiscal compact, del divieto agli aiuti di stato), poco di più. Sembra che ci sia un muro invalicabile: non accada mai che un euro versato da un contribuente della Baviera rischi di andare a beneficio di un cittadino dell’Andalusia.

Uniti nella moneta e per il resto ognuno per sé; poco importa se i vantaggi e gli oneri dell’appartenenza all’eurozona sono distribuiti in modo asimmetrico. Ed è contro questo muro che l’intero progetto di integrazione europea potrebbe schiantarsi. O cade il muro, o cadrà l’Europa. Le prese di posizione che vengono dalla Germania, dall’Austria, dall’Olanda, dalla Finlandia e dai Paesi satelliti non sono incoraggianti. Sembra di sentire, questa volta riferite all’euro, le stesse ciniche parole pronunciate dal Segretario al Tesoro John Connally nel 1971 quando l’amministrazione Nixon scaricò i problemi del dollaro sul resto del mondo:”il dollaro è la nostra moneta ed è il vostro problema”.

pubblicato sulla Gazzetta di Parma, 27 marzo 2020

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