4. IL RETAGGIO DI VON HAYEK NELLA COSTRUZIONE EUROPEA. L’ANALISI DI SCHARPF.

4.1 L’integrazione negativa nella teorizzazione di Hayek

I capitoli precedenti hanno evidenziato come il processo di integrazione europea abbia comportato un radicale mutamento degli assetti economici e sociali dei “paesi ad economia di mercato sociale” nella direzione della progressiva assimilazione agli assetti dei “paesi ad economia di mercato neoliberale”, secondo il lessico di Scharpf.

Questo processo ha storicamente ripercorso, nei fatti, quanto Hayek aveva previsto e auspicato elaborando la sua teoria del federalismo incompleto. Una federazione europea interstatale “che non sia una semplice alleanza, né una completa unificazione”, come dispositivo per la realizzazione del “logico compimento del programma liberale” finalizzato, secondo le sue argomentazioni, a liberare le dinamiche dei mercati dall’interventismo economico e politico degli Stati e ad assicurare la pace tra le nazioni federate, aspetto sul quale non si sofferma la sua analisi che è soprattutto focalizzata sugli obbiettivi politici che la federazione consentirebbe di conseguire.

Una soluzione istituzionale, quella di Hayek, intermedia tra uno Stato europeo unitario e una confederazione di Stati indipendenti e sovrani. Un sistema quasi-federale sul quale, secondo le indicazioni di Hayek, avrebbero dovuto concentrarsi, in campo economico, soltanto alcune funzioni: la promozione della libertà degli scambi (abolizione delle dogane e dei dazi), il presidio della libertà di movimento dei capitali e l’attuazione accentrata della politica monetaria. Quest’ultima aveva un duplice scopo. In primo luogo, avrebbe sottratto agli Stati la possibilità di favorire fluttuazioni dei cambi finalizzate al recupero di differenziali di competitività in presenza di diversi livelli di inflazione. In questo modo, gli Stati membri sarebbero stati privati della possibilità di supportare il commercio nazionale rispetto alla concorrenza internazionale. La privazione della sovranità monetaria avrebbe, inoltre, sottratto agli Stati la leva della creazione monetaria quale strumento per il finanziamento dell’intervento pubblico nell’economia.

 Allo Stato centralizzato minimo Hayek attribuiva, oltre alla politica estera e alla difesa, il fondamentale compito in campo economico (sul quale si concentra la sua analisi) di eliminare ogni ostacolo alla libera circolazione dei fattori produttivi al fine di legare le mani all’interventismo pubblico. La libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali, conseguente all’abolizione delle frontiere interne alla federazione, avrebbe agito nella direzione di sottrarre agli Stati federati la possibilità di mantenere misure protezionistiche. Queste, se conservate, avrebbero finito per penalizzare le imprese nazionali in una sorta di discriminazione a rovescio se gravate da vincoli e regole più restrittive rispetto ai concorrenti provenienti da contesti nazionali più liberalizzati. Scharpf definisce “integrazione negativa” questo processo che agisce, appunto, in negativo disarmando l’interventismo statale e riducendo la capacità di resistenza dei governi nazionali a difesa dello Stato sociale.

L’integrazione negativa avrebbe agito nella direzione di liberalizzare i mercati interni alla federazione anche in assenza di una ben più difficile “integrazione positiva” che avrebbe richiesto politiche centralizzate di armonizzazione legislativa, complesse da realizzare in quanto avrebbero incontrato insuperabili resistenze a tutela di interessi nazionali diversificati.

La libertà di movimento dei fattori produttivi avrebbe anche obbligato gli Stati alla moderazione fiscale resa necessaria dall’esigenza di attrarre capitali e lavoro (ed evitarne la fuga) e, come conseguenza, i governi sarebbero stati spinti verso il corrispondente contenimento della redistribuzione del reddito attraverso la spesa pubblica e il welfare. Si sarebbe così arginata l’intrusione dello Stato nel mercato e nel conflitto distributivo tra capitale e lavoro che il programma liberale intende affidare in via esclusiva alle dinamiche del mercato. Insomma, un governo centralizzato minimo limitato alle prerogative necessarie per realizzare una unione economica e tale, in ogni caso, da non ripetere al suo interno le dinamiche tipiche dello Stato nazionale interventista.

Hayek non lo esplicita in modo diretto, ma è ovvio che dietro l’arretramento dello Stato rispetto al mercato è implicito il depotenziamento della politica e, quindi, della democrazia. Meno sovranità dello Stato e, come conseguenza, meno sovranità nello Stato (lessico di Alessandro Somma). Hayek ne fa cenno soltanto in un passaggio che ha il sapore dell’excusatio non petita: << nella sfera nazionale diventa ogni giorno più ovvio che una democrazia funziona soltanto se non la sovraccarichiamo e se le maggioranze non abusano del loro potere di interferire con la libertà individuale […] il prezzo che dobbiamo pagare è la restrizione del potere e dell’ambito di intervento del governo; si tratta certamente di un prezzo non troppo alto, e tutti coloro che credono sinceramente nella democrazia dovrebbero essere preparati a pagarlo >>.

Secondo Hayek, in una federazione tra Stati l’interventismo pubblico sarebbe risultato fortemente limitato sia all’interno degli Stati federati, sia nella stessa organizzazione istituzionale federale. Ciò avrebbe favorito l’adozione di politiche economiche molto più liberali di quelle che avrebbero potuto essere adottate dai singoli Stati nazionali non federati.

Secondo la visione di Hayek, negli Stati federati l’intervento pubblico sarebbe stato limitato per due ragioni. In primo luogo, perché ai singoli Stati sarebbe stata preclusa la possibilità di perseguire una politica monetaria indipendente. In secondo luogo, perché la libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone avrebbe attivato una dinamica riformatrice in senso liberista alla quale i Paesi federati non avrebbero potuto sottrarsi. Un’unione, quindi, costruita sull’integrazione negativa, come la definisce Scharpf, un’integrazione subita e non controllata dai governi nazionali, il cui esito finale sarebbe stato l’abolizione forzata di quelle forme di regolamentazione e di solidarietà osteggiate dall’ideologia neoliberale, possibili a livello di singoli Stati indipendenti, ma non riproponibili all’interno di una federazione.

Questo a livello dei Paesi membri. Ma, come osserva Hayek, nemmeno il governo centrale federale avrebbe potuto farsi carico della pianificazione e della regolamentazione che gli Stati federati non avrebbero più potuto porre in essere. Non avrebbe potuto farlo, quanto meno, per la semplice impossibilità di contemperare esigenze e interessi nazionali fortemente diversificati e per l’impossibilità del manifestarsi di una solidarietà tra popoli, stranieri fra loro, e caratterizzati da differenti storie, cultura, lingua, religione, istituzioni. Una federazione di ampie dimensioni, tra Paesi molto diversi, avrebbe legato le mani al governo accentrato rendendolo incapace di alterare le dinamiche del mercato con l’intento di privilegiare singole aree territoriali e singoli gruppi sociali a scapito di altri. Ciò presupporrebbe, infatti, la formazione di maggioranze molto ampie concretamente impossibili da realizzare in un contesto continentale multi-etnico e multi-nazionale. << È semplice buonsenso che il governo centrale in una federazione composta di molti popoli dovrà essere di portata ristretta se vuole evitare d’incontrare una resistenza crescente da parte dei vari gruppi che essa include>>.

Wolfgang Streeck (qui) in Tempo guadagnato (pagg. 121-122) riassume così le argomentazioni di Hayek: “in una federazione di stati nazionali la diversità di interessi è maggiore di quella presente all’interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un’identità in nome della quale superare i conflitti stessi […]. Un’omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee“.

Nella prospettiva di Hayek, quindi, da un lato, gli Stati federati verrebbero progressivamente ad indebolirsi sino a cessare di conservarsi come enti sovrani e, dall’altro lato, la federazione non dovrebbe esercitare tutti i poteri di cui gli Stati nazionali vengono progressivamente privati. In altri termini, la parziale integrazione politica avrebbe impedito la nascita di uno Stato europeo, unitario, sociale e redistributivo, quella che nel dibattito odierno viene definita “unione di trasferimenti”. Altro che Stati Uniti d’Europa! non è certo questo l’obbiettivo dell’ideologia ordoliberale e dei seguaci di Hayek. All’obbiettivo di ridurre la sovranità dei singoli Stati non corrisponde alcuna volontà di creare un grande Stato europeo cui trasferire le sovranità sottratte ai singoli Stati federati. Lo conferma autorevolmente Giuliano Amato che non può certo essere accusato di anti-europeismo << la verità è che il potere sovrano, spostandosi, evapora. Scompare. I poteri sono trasferiti a livelli superiori senza che questi diventino sovrani >> (qui).

4.2 Le tracce della teorizzazione di Hayek nel processo di integrazione europea

Le tracce della teorizzazione di Hayek risultano evidenti nel percorso storico dell’integrazione europea pur considerando che essa è stata fortemente improntata anche dall’ideologia funzionalista che fa capo a Jean Monnet. Come sottolinea Ottavio Reho in “Federalismo hayekiano e integrazione europea. Un saggio introduttivo” (qui), pur avendo davvero poco in comune << non è insensato sostenere che i due principi in questione, quello liberale d’ispirazione direttamente o indirettamente hayekiana e quello dirigista di origine “monnetista” e francese, si siano contesi la guida del processo di integrazione europea fin dalle origini e fino ai nostri giorni, con fortune alterne e senza che l’uno abbia mai trionfato una volta per tutte sull’altro >>. Mentre Hayek aveva teorizzato un’integrazione che iniziava dall’alto con l’unione politica e con una Costituzione unitaria, il progetto funzionalista di Monnet prevedeva un’integrazione ascendente, dal basso, alimentata da progressivi trasferimenti di funzioni dagli Stati, un passo per volta, ad una gestione accentrata. Pur nella diversità dei percorsi di integrazione proposti è evidente un punto di saldatura tra le due teorizzazioni: la graduale sottrazione di sovranità nazionali a favore di un super organismo che avrebbe garantito libero scambio ai paesi membri.

Pur considerando che la genesi dell’Unione Europea non corrisponde esattamente alle previsioni di Hayek, poiché non è stata creata come una federazione e segue una diversa logica costitutiva di tipo funzionalista, nel saggio citato (qui), Scharpf evidenzia che un aspetto costitutivo del processo di costruzione dell’unione europea, l’integrazione negativa, trova piena corrispondenza alle tesi di Hayek e dimostra come si siano concretamente realizzate le logiche economiche che la sua analisi aveva previsto. Infatti, secondo Scharpf l’integrazione economica tra Stati avrebbe potuto realizzarsi secondo due diverse modalità: l’integrazione negativa e l’integrazione positiva.

La prima tipologia, quella teorizzata da Hayek, opera in negativo, sottrae, e costringe gli Stati ad abolire tariffe, restrizioni quantitative ed altre barriere al commercio e ostacoli di vario genere che si oppongono alla libera concorrenza. E lo fa attraverso dinamiche che si sottraggono al controllo degli Stati membri, dinamiche che li prevaricano, e li privano della capacità di regolamentare le loro economie e di restringere la concorrenza di mercato a protezione dlle produzioni nazionali, senza che essi le possano contrastare ove le ritenessero contrarie agli assetti economici e sociali consolidati all’interno dei confini nazionali.

L’integrazione positiva, per contro, è fondata sulla costruzione di regole economiche condivise al livello del governo federale, frutto di una armonizzazione legislativa che sarebbe stata possibile soltanto con l’accordo unanime di tutti gli Stati federati. Sarebbe spettata a loro la decisione di abrogare le barriere domestiche alla circolazione di beni, servizi, persone e capitali per sostituire ai regimi nazionali un unico regime europeo. Di conseguenza, i governi nazionali avrebbero mantenuto il controllo della portata e della velocità del processo di unificazione economica e del grado di liberalizzazione.

Nei primi decenni di vita della Comunità Europea era senso comune che, dopo l’eliminazione delle barriere tariffarie, ulteriori progressi nell’eliminazione delle “barriere non tariffarie” sarebbero stati raggiunti soltanto attraverso l’armonizzazione legislativa delle norme nazionali promossa dagli organi comunitari. In tal modo i governi avrebbero deciso quando e per quali prodotti sarebbe stato liberalizzato il commercio; in che misura e quando i controlli sui movimenti di capitali sarebbero stati aboliti; a quali condizioni le persone avrebbero potuto lavorare in un altro Stato membro e a quali condizioni le imprese avrebbero potuto stabilirsi all’interno dell’unione, e così via.

“I governi potevano essere certi che, senza il loro consenso, nessuna legislazione avrebbe potuto modificare i confini economici esistenti. Finché questa condizione è rimasta incontrastata, gli Stati membri sono stati anche in grado di controllare le interazioni tra l’entità della liberalizzazione economica e il funzionamento dei loro sistemi nazionali di welfare, dei sistemi di relazioni industriali, delle entrate pubbliche, dei servizi pubblici e delle infrastrutture” (Scharpf cit. pag.214).

Nell’originaria impostazione, l’integrazione europea doveva essere realizzata “positivamente” o mediante un accordo intergovernativo sulle modifiche dei Trattati o mediante una legislazione europea avviata dalla Commissione e adottata dal Consiglio. Ed era certamente questa l’intenzione degli Stati che hanno sottoscritto il Trattato di Roma. E così è avvenuto per oltre due decenni nei quali hanno tardato a manifestarsi le dinamiche dell’“integrazione negativa” previste da Hayek anche perché, diversamente da quanto da lui auspicato, la Comunità Economica Europea nasce come mera unione doganale non accompagnata dall’unione politica di stampo federale che, secondo Hayek, avrebbe contribuito ad accelerare il compimento del programma liberale. L’unione politica federale è stata rinviata e, in realtà, non è mai stata del tutto voluta dagli Stati membri al di là delle affermazioni retoriche. La mancata manifestazione per oltre due decenni delle dinamiche previste da Hayek ha probabilmente illuso i sostenitori del “modello sociale”, e contrari al liberalismo di mercato, in merito alla possibilità che l’integrazione europea potesse essere costruita sulle idee che hanno plasmato “le economie di mercato sociali”.

<< Tuttavia, l’integrazione economica ha accelerato e la trasformazione liberale che Hayek aveva previsto ha effettivamente avuto luogo. Per le “economie di mercato sociali” continentali e scandinave, questa trasformazione è diventata sempre più dirompente […] come conseguenza tardiva ma inesorabile dei fattori strutturali associati all’integrazione di stati nazione eterogenei che Hayek aveva postulato […] ed è importante comprenderne le cause >> (Scharpf cit. pag.212).

L’analisi di Scharpf consente di comprendere come sia stato possibile superare lo stallo che bloccava l’avanzamento del percorso unitario attraverso l’integrazione positiva per l’impossibilità – prevista da Hayek – di comporre gli interessi divergenti dei singoli Stati e di pervenire ad un accordo politico europeo per l’armonizzazione delle legislazioni nazionali, impossibità rafforzata dal diritto di veto dei singoli governi e dall’ingresso nella Comunità di nuovi Paesi che hanno ulteriormente ampliato la distanza tra gli interessi e le preferenze dei singoli Stati membri.  Da qui la difficoltà di dare vita all’integrazione positiva e alla formazione di una legislazione comunitaria, almeno nei primi decenni dell’unione. Come sottolinea O. Reho (cit. pag.20) << Scharpf ci conduce a comprendere come avvenne il superamento di questo stallo e come si trattò di una soluzione sorprendentemente hayekiana >> fondata sull’integrazione negativa come da lui profeticamente indicato.

Anticipo, ora, le conclusioni cui perviene Scharpf nell’opera citata e rinvio al prossimo paragrafo la trattazione del modo in cui si è attivata l’integrazione negativa: << alla fine, quindi, l’evoluzione dell’integrazione europea ha confermato la previsione di Friedrich Hayek, pubblicata nel 1939, secondo cui l’integrazione di Stati nazione precedentemente sovrani in Europa avrebbe ridotto la capacità dei governi nazionali di regolare l’economia capitalista e di far gravare su di essa i costi di un oneroso stato assistenziale. Ci è voluto un po’ più tempo del previsto, tuttavia, poiché i governi membri avevano inizialmente mantenuto il controllo dell’integrazione economica >>.

L’analisi di Scharpf propone, in questa ottica, una approfondita conferma del retaggio di Hayek nella costruzione europea. Le sue intuizioni non sono mai andate perse per i suoi seguaci che hanno occupato posizioni di massimo rilievo nelle istituzioni europee e hanno concretamente contribuito a sostenere l’integrazione europea secondo i principi ordoliberali. << È interessante constatare come in ambiti culturali autorevoli, ma, purtroppo, estranei all’Italia, il “retaggio” di von Hayek, rispetto alla costruzione europea, non è oggetto di particolari dubbi. Troppe tracce concettuali, e di concreta “formazione” di una certa classe dirigente europea, emergono prepotentemente perchè ciò possa sfuggire a chi voglia sviluppare una seria ricostruzione storico-politica (L. Barra Caracciolo qui).

Si parla di “retaggio” e di “tracce concettuali” perché l’ideologia dominante non viene esibita dal potere, addirittura è molto raro che questa sia chiamata in causa con il suo proprio nome, come sono rare le dichiarazioni di adesione all’ideologia stessa da parte di politici e di opinion maker. Trovo illuminanti queste parole di  Carlo Galli (qui): ”Con la teologia politica si può scoprire la grande decisione originaria che c’è dietro ogni potere, che di solito le stesse forme del potere cancellano perché non la vogliono esibire; in cinque anni di parlamento non ho mai sentito la parola neoliberismo”. Pensiamoci. Quante volte abbiamo sentito le parole neoliberismo e ordoliberalismo? quante volte abbiamo sentito qualche esponente dell’establishment affermare di condividere l’ideologia ordoliberale?

L’ordoliberalismo si fa, ma non si dice. Si fa, senza dichiararlo, in modo strisciante, lentamente, secondo il principio della rana bollita di Noam Chomsky, principio di cui Giuliano Amato ci offre una autorevole testimonianza. Giuliano Amato, uno dei pochi esponenti politici ad avere pubblicamente dichiarato la propria adesione al pensiero ordoliberale (qui), rispose in questo modo all’intervistatrice (Barbara Spinelli) che auspicava un’accelerazione del progetto europeo: “Non penso che sia una buona idea rimpiazzare, con grandi balzi istituzionali, questo metodo lento ed efficace – che solleva gli Stati nazionali dall’ansia, mentre vengono privati del potere – … perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questo è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee” (La Stampa, 13.07.2000). Insomma, se vuoi cuocere una rana non immergerla direttamente nell’acqua bollente. Ne schizzerebbe fuori in un attimo. Se, invece, la metti nell’acqua fredda apprezzerà l’intiepidirsi e cuocerà felice, lentamente, senza accorgersene.

Perché questo modo di procedere lento e silenzioso? Perché si trattava, niente meno, che di riformare i principi fondativi della nostra Costituzione, ovviamente non abrogandoli, ma semplicemente rendendoli non effettivi. Lo dice chiaramente Mario Monti in un’intervista al Sole 24 Ore (22.08.2008): << quando promuovevo in Italia l’economia sociale di mercato negli anni ‘80 e mi chiedevo perché L. Erhard avesse avuto successo in Germania con gli stessi principi che Einaudi non era riuscito a far prevalere in Italia, andare verso l’economia sociale di mercato era per l’Italia una sfida. Quel modello di stampo tedesco stava diventando, con il Trattato di Roma e poi con quello di Maastricht, allora in fase di concepimento, la costituzione economica europea e includeva aspetti antitetici al pensiero e alla prassi dell’Italia di allora”. Senza mezzi termini, e senza reticenza, lo ribadisce Luciano Capone (Il Foglio, 25.09.2021) << oggi sono Maastricht, l’euro e i Trattati europei a definire la nuova Costituzione economica italiana >>.

4.3 L’INTEGRAZIONE NEGATIVA PRODOTTA DALLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA

Ad aggirare e superare lo stallo dell’integrazione per via legislativa, conseguente ai blocchi politici in seno al Consiglio Europeo, ha provveduto l’integrazione per via giudiziaria. L’analisi scharpfiana individua, infatti, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (CGUE) il motore dell’integrazione negativa. Quell’armonizzazione legislativa in senso liberale, cui era molto difficoltoso pervenire secondo il percorso dell’integrazione positiva, è stata realizzata nella logica dell’integrazione negativa di stampo hayekiano attraverso le sentenze della CGUE.  

La giurisprudenza della Corte, secondo l’analisi scharpfiana ha svolto un ruolo cruciale nel processo di integrazione europea. Ha contribuito ad ampliare la portata delle competenze e delle azioni europee nella liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati e ha notevolmente ristretto il raggio delle scelte politiche ed economiche autonome negli Stati membri. Ciò ha concorso in misura molto rilevante a determinare quella trasformazione delle “economie di mercato sociali” che nel capitolo 2 è stata rappresentata graficamente come transizione dal quarto al secondo quadrante. Ciò non significa che l’integrazione attraverso le sentenze della Corte abbia sostituito l’integrazione legislativa, tuttavia se questa ha preso vigore nella seconda metà degli anni ’80 è innegabile che la CGUE abbia preparato il terreno nei decenni precedenti e abbia costituito un impulso cruciale.

Nelle parole di Scharpf, << le basi dottrinali di questa opzione per l’integrazione erano state poste negli anni ’60 da due coraggiose decisioni della Corte. La prima interpretava gli impegni assunti dagli Stati membri nel Trattato di Roma non come obblighi di diritto internazionale, ma come un ordinamento giuridico autonomo, direttamente effettivo, dal quale i singoli individui e le imprese potevano derivare diritti soggettivi da esercitare nei confronti degli Stati [attraverso la possibilità di accedere alla procedura di deferimento, cioè la facoltà di richiedere, nei processi davanti ai tribunali nazionali, il parere preliminare della CGUE].  La seconda decisione affermava la supremazia di questo ordinamento giuridico europeo sul diritto degli Stati membri >>.

A questo proposito, Scharpf produce un’approfondita disamina delle principali sentenze della Corte, disamina che evidenzia come << forzando la lettera e lo spirito dei Trattati per dare vita a un ordine giuridico autenticamente federale, la Corte conseguì, a seguito di alcune rivoluzionarie sentenze, niente meno che la costituzionalizzazione del diritto della concorrenza nella Comunità economica europea ciò che, col tempo, finì col suonare la campana a morto per molte pratiche interventiste e monopoli di Stato protetti, nei decenni precedenti, da innumerevoli restrizioni alla concorrenza a livello nazionale >> O. Reho (cit. pag.20), .

Perché Reho definisce “rivoluzionarie” le sentenze della CGUE? Il carattere rivoluzionario deriva dal fatto che la giurisprudenza della Corte è fondata su di una interpretazione molto estensiva e molto discutibile della natura dei Trattati e del proprio ruolo, interpretazione che essa stessa ha elaborato, pro domo sua. La Corte attribuisce ai Trattati l’enunciazione di principi di rango costituzionale e, in quanto tribunale preposto all’interpretazione dei Trattati, ha conferito a se stessa, nei rapporti tra l’Unione Europea e gli Stati membri, uno status assimilabile a quello di una Corte Costituzionale. Si tratta di una interpretazione che non è condivisa da larga parte della dottrina e, soprattutto, è stata negata recisamente dalla Corte Costituzionale tedesca in numerosi contenziosi tra le due istituzioni.

Come indicato in un illuminante post di Luciano Barra Caracciolo (qui), la Corte tedesca respinge l’interpretazione della CGUE ed afferma che gli Stati membri sono e restano “i signori” dei Trattati e, di conseguenza, quando parla del diritto e degli istituti giuridici europei, la Corte tedesca ne parla sempre come diritto “derivato” dai poteri costituzionali di negoziazione dei Trattatti da parte degli Stati membri. Una “Costituzione” ha carattere necessariamente “originario” ma non esiste una Costituzione europea e, con il Trattato di Lisbona, l’UE vi ha definitivamente rinunciato. La fonte del potere comunitario risiede pertanto nei popoli europei e nelle loro leggi nazionali e il diritto dei Trattati europei rimane un ordinamento “derivato”, cioè concesso da altri soggetti giuridici, gli Stati nazionali. Non c’è secondo la Corte tedesca alcun primato del diritto comunitario che possa consentire la deroga a eventuali fonti costituzionali degli Stati membri. Il diritto europeo rimane fondato su Trattati di diritto intenazionale che solo in virtù delle leggi nazionali di approvazione producono effetti giuridici in Germania e negli altri Stati membri.

Secondo i critici della dottrina della supremazia, l’Unione Europea è una formazione del diritto internazionale. Il diritto internazionale, tuttavia, non conosce altri soggetti giuridici che non siano gli Stati e non può contemplare una persona giuridica che sia emanazione dalla volontà degli Stati ma, allo stesso tempo, pretenda di situarsi al di sopra di essi. Secondo la Corte tedesca, il preteso primato del diritto comunitario è una “finzione giuridica”, impostasi di fatto ma senza fondamento, dalla quale deriverebbe la pretesa di considerare come sovraordinate norme giuridiche che, in realtà, trovano legittimazione da fonti che, secondo la CGUE, dovrebbero essere ad esse gerarchicamente sottordinate.    

Come evidenziato nel post di Luciano Barra Caracciolo sopra citato, secondo i critici, la dottrina della pretesa supremazia del diritto europeo sui diritti degli Stati membri, postulata dalla Corte, non sarebbe prevista in alcuna norma dei Trattati e corrisponderebbe solo ad unilaterali e ambigue affermazioni della Corte europea stessa che decide in rem propriam, cioè a vantaggio della propria stessa affermazione unilaterale di supremazia. In altre parole, con evidente tautologia, la CGUE sostiene la supremazia del diritto europeo sulle giurisdizioni nazionali con argomenti ricavati dalla sua stessa giurisprudenza e sostiene che, diversamente, eventuali divergenze tra i pronunciamenti dei giudici degli Stati membri potrebbero provocare disparità di trattamento e pregiudicare la certezza del diritto compromettendo, in tal modo, l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione.

Pertanto, secondo i critici, la CGUE si pronuncia su interessi fondamentali degli Stati che non sarebbero per essa giuridicamente disponibili. Cioè la soppressione o limitazione di tali interessi nazionali non corrisponderebbe ad alcuna attribuzione di potere della CGUE che sia fondato su una norma preesistente e di fonte idonea, di rango costituzionale. La dottrina postulata dalla Corte, invece, << configura il diritto europeo come fonte di obblighi “primari” in un sistema giuridico in sè conchiuso e ormai autonomo sia dal diritto interno, su cui prevale, sia dal diritto internazionale, da cui prescinde >> (L. Barra Caracciolo, cit.). Ma, come anche rileva la Corte tedesca, questa auto-attribuzione di sovranità sarebbe fondata su una fonte, i Trattati, pur sempre “derivata” dai poteri costituzionali di negoziazione degli Stati.

Nemmeno il fallimento del progetto di Costituzione europea, che avrebbe dovuto farne cadere i presupposti, è valso a ridimensionare la pretesa supremazia del diritto comunitario. Come viene ricordato nel post di Barra Caracciolo sopra citato, in una dichiarazione allegata all’atto finale della Conferenza intergovernativa che ha approvato il Trattato di Lisbona si legge << con riguardo alla supremazia del diritto comunitario la conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i Trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei Trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza >>. Insomma, la CGUE ha sancito la supremazia del diritto europeo. E quale sarebbe la fonte giuridica di tale supremazia ? la giurisprudenza della stessa CGUE !

Inoltre, la Conferenza ha allegato all’atto finale il seguente parere del Servizio giuridico del Consiglio europeo << dalla giurisprudenza della CGUE si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro Trattato [il Trattato di Lisbona nel quale è stato trasfuso il testo dell’abortita Costituzione europea] non altera in alcun modo l’esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia >>.  

In “Ever Closer Union?” (qui la traduzione), Perry Anderson, storico accademico e saggista, propone una approfondita analisi delle istituzioni europee. A proposito della CGUE, afferma sulla base di riferimenti ad una vasta bibliografia che << le decisioni della Corte negli anni ’60 erano “rivoluzionarie”, perché i principi che annunciavano non erano concordati nei Trattati che avevano creato la CECA e la CEE, e quasi certamente non sarebbero stati concordati se le questioni fossero state sollevate. La Corte era un tribunale con un’agenda che non corrispondeva alle intenzioni dei suoi fondatori poiché non si limitava a considerare se stessa come il guardiano dei diritti degli Stati firmatari, garante dell’osservanza del diritto comunitario e come un arbitro neutrale tra gli Stati e la Comunità, ma piuttosto come la forza trainante dell’integrazione. La sua affermazione della supremazia della Comunità sulle leggi nazionali, per non parlare delle leggi costituzionali, non aveva alcun fondamento nel Trattato di Roma che le concedeva solo diritti di controllo giurisdizionale rispetto agli atti delle istituzioni dell’Unione, non rispetto agli atti degli stati membri. Eppure, in effetti, questo è esattamente quello che la Corte intraprende regolarmente >>.

Ed è ciò che ha permesso alla giurisprudenza della CGUE di assumere il rango di “legge superiore” negli Stati membri. Alle decisioni della Corte sopra richiamate, che stanno alla base della sua giurisprudenza e della valenza giuridica che essa stessa attribuisce ai suoi pronunciamenti, hanno poi fatto seguito numerose altre sentenze, esaminate puntualmente da Scharpf. Le sentenze della Corte hanno via via, abbattuto le misure protezionistiche e gli ostacoli non tariffari concepiti dagli Stati membri per impedire l’accesso al mercato da parte dei fornitori esteri. In particolare hanno normato il principio del reciproco riconoscimento, asse portante di un federalismo economico liberale e principio-chiave dell’integrazione negativa. Secondo questo principio i prodotti devono essere ammessi al mercato nazionale di tutti gli Stati membri, se legittimamente fabbricati e commercializzati in uno degli Stati membri, anche se le prescrizioni tecniche e qualitative dello Stato di provenienza fossero diverse e meno restrittive rispetto a quelle degli altri Stati. La conseguenza è una sorta di armonizzazione al ribasso. Uno Stato membro deve accettare l’ingresso di prodotti esteri meno regolati o regolati con norme meno onerose, ad esempio imitazioni di prodotti tipici nazionali, e, per non innescare una “discriminazione a rovescio” a discapito dei produttori domestici, non può continuare a pretendere di applicare la propria più stringente regolamentazione nazionale.

Altre decisioni delle Corte riguardarono monopoli, industrie di Stato e settori economici che fino ad allora avevano beneficiato di aiuti di Stato ed erano protetti rispetto alla concorrenza di mercato. Sulla base di queste sentenze iniziavano a concretizzarsi sia l’unione economica, sia le previsioni di Hayek in merito all’esercizio dei poteri “negativi” della federazione di impedire ai singoli Stati di interferire con l’attività dei mercati.

Dall’esame delle principali sentenze della Corte, Scharpf conclude che << in linea di principio nessun ambito del diritto, delle istituzioni e delle pratiche nazionali è rimasto immune dalla potenziale portata delle libertà economiche e dalle regole di una concorrenza di mercato non distorta […] non c’è dubbio che la giurisprudenza della CGUE abbia spinto la supremazia del diritto europeo ben oltre i confini che si sarebbero potuti raggiungere se l’integrazione fosse dipesa interamente dai processi di negoziazione intergovernativa >>.

Come è stato possibile? Perché non si è manifestata la resistenza all’interno dei Paesi ad economia di mercato sociale? Sharpf avanza alcune possibili risposte a queste domande. In primo luogo, bisogna considerare la forza e la diffusione dell’orientamento politico favorevole all’ideologia ordoliberale e alla promozione del federalismo europeo, quale dispositivo per liberare l’economia dall’invadenza distorsiva del controllo sociale esercitato dallo Stato e quindi dalla politica e, attraverso questa, dalla volontà popolare. In particolare, tale orientamento politico ha caratterizzato, in primo luogo, gli stessi magistrati della Corte. Lo evidenzia molto bene Anderson tracciando i profili biografici e il background culturale e politico dei giudici che si sono susseguiti all’interno della CGUE. Scrive Anderson che << la giustizia all’europea non è mai stata bendata: aveva gli occhi ben aperti, con una benda colorata sul capo, coi colori dei partiti dell’establishment dell’epoca […] le decisioni della Corte mascherano questioni altamente politiche in modo apolitico >>. Come scrive Marco Baldassari commentando Anderson in “Verso una disunione sempre più stretta” (qui) << i giudici che la componevano, così come i giuristi che contribuirono a sviluppare i primi principi comunitari, erano imbevuti di pensiero ordoliberale, antisocialista e fortemente ostile ai principi della democrazia economica di matrice keynesiana. Ciò confermava il fatto che il processo decisionale e normativo europeo fosse, quindi, eminentemente politico >>.

La Corte ha avuto anche il pieno appoggio di una parte considerevole della comunità euro-giuridica che ha generato una letteratura finalizzata a sviluppare e a diffondere i fondamenti dottrinali di un ordinamento giuridico europeo autonomo, direttamente effettivo nei confronti delle persone e delle imprese e con supremazia sul diritto degli Stati membri. A questo proposito, Scharpf non ha remore nel parlare di uso della giurisprudenza “come maschera della politica”. In altre parole, le ragioni politiche ed economiche dell’ideologia ordoliberale sono avanzate nascoste dietro il consistente velo delle argomentazioni giurisprudenziali.

E l’opposizione? Poiché la Corte tendeva ad annunciare innovazioni dottrinali di vasta portata in giudizi su scarsa o perfino banale importanza sostanziale, sarebbe stato difficile se non impossibile mobilitare l’opposizione politica contro la giurisprudenza della Corte a livello nazionale. Occorre poi considerare che non è possibile ricorrere contro le decisioni della CGUE, decisioni che potrebbero essere riformate soltanto seguendo un iter procedurale molto improbabile se non impossibile. Sarebbero infatti necessari emendamenti ai Trattati che richiederebbero una maggioranza qualificata in Consiglio e una maggioranza assoluta nel Parlamento europeo e che dovrebbero essere poi ratificati in tutti gli Stati membri. In realtà la Corte si è auto-immunizzata contro qualsiasi esercizio ordinario della politica e della volontà popolare e, come conclude Anderson, << la verità è che, secondo ogni ragionevole stima, sarebbe difficile concepire un’istituzione giudiziaria occidentale che, sin dalle sue tenebrose origini, sia stata altrettanto priva di una qualsiasi traccia di responsabilità democratica >>.

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