5. Il “SOGNO EUROPEO” E’ SOLTANTO UN SOGNO

5.1 LA SINDROME DEL SOGNO EUROPEO. L’EUROPA CHE NON C’E’

Ai miei figli voglio lasciare un sogno

Si sogna soltanto quando si dorme. Gli euro-sonnambuli si muovono, camminano, parlano, sentenziano, ma in realtà stanno sognando. Sognano gli Stati Uniti d’Europa. Sognano uno Stato federale europeo che alberga solo ed esclusivamente nella dimensione onirica, nei piacevoli sogni delle anime belle; non c’è traccia alcuna nella realtà.

Sembra inoltre che la sindrome dell’euro-sonnambulismo sia un fenomeno tipicamente italiano. Quanto meno, non appare così diffuso in altri Paesi dell’eurozona. In diversi Paesi membri non se ne parla proprio e se qualcuno osasse farlo verrebbe inquadrato negativamente come ostile agli interessi nazionali, come folle sostenitore di un progetto che sarebbe volto a trasferire risorse finanziarie dai contribuenti dei loro Paesi frugali ai Paesi spendaccioni . E ciò forse perché l’unione monetaria ha due facce, come la luna. Di quest’ultima, ovunque ci si muova sulla terra, si vede soltanto una faccia; la luna è uguale per tutti. L’ unione monetaria, invece, non è uguale per tutti. Dell’unione monetaria vediamo dall’Italia solo la faccia più brutta e vorremmo vederla migliore. Da altri Paesi si vede soltanto l’altra faccia, quella più bella, e per loro l’unione va bene così come è. Solo noi vorremmo un’unione diversa. E questo senso di privazione ci induce a sognare; ci induce a considerare l’Europa non per come è, ma per come ci piacerebbe che diventasse.

Quando si svegliano, gli euro-sonnambuli non possono non vedere una realtà molto diversa e molto lontana dall’Europa sognata. Non possono non vedere un’Unione Europea così profondamente distante, così costituzionalmente diversa rispetto al meraviglioso mondo onirico degli Stati Uniti d’Europa, l’agognata patria del δῆμος (demos) europeo, faro di civiltà per il resto del mondo, culla della democrazia, dei diritti sociali, dell’uguaglianza sostanziale, della giustizia sociale, della solidarietà tra i cittadini europei, dello Stato che si prende cura della persona umana e abbatte gli ostacoli che si frappongono alla sua emancipazione; l’area più ricca del mondo, protagonista a pieno titolo nell’agone politico mondiale. Tutti vorremmo un’Europa unita, indipendente, democratica, giusta e pacifica. Vorremmo un’Europa che non c’è. Abbiamo, invece, un’altra Europa, molto diversa. E allora smettiamo di parlare di quanto è bella l’Europa che non c’è e parliamo, invece, dei problemi dell’Europa che c’è.

Parafrasando la famosa frase che Metternich scrisse nel 1847 a proposito dell’Italia, oggi potremmo dire con le sue parole che: “l’Unione Europea è poco più che un’espressione geografica”. Unione Europea è la qualificazione attribuita ad accordi che riguardano la moneta, la banca centrale, le regole di bilancio ma questi accordi non si sostanziano in una dimensione politica, non danno vita ad una forma statuale. Questo è il punto; e a partire da questa considerazione nascono due interrogativi fondamentali: a) l’unione “economica e monetaria” è una tappa intermedia lungo una continuità di percorso di avvicinamento all’unione “politica”? b) è sostenibile l’unione economica e monetaria che non sfocia nell’unione politica?

Quando gli euro-sonnambuli si svegliano non possono non vedere la realtà e, allora, cosa fanno? Chiedono “più Europa“. Chiedono cioè che sia la realtà ad adeguarsi al sogno; chiedono che si acceleri il processo verso quella che loro ritengono essere la nostra meta finale. Pensano che sarà un percorso lungo e difficile, ma non hanno dubbi sul fatto di essere sulla strada giusta, quella che porta alla meta. Dobbiamo soltanto fare passi più lunghi. Questo è quanto crede la maggior parte delle persone che conosco, persone che non hanno avuto modo di approfondire la conoscenza di questa cosa che chiamiamo impropriamente Europa senza sapere bene cos’è, come funziona, cosa sta facendo per noi.

Credo che questa idea costituisca un fraintendimento macroscopico che non può essere derubricato semplicemente al meraviglioso e innocente mondo dei sogni. Non ha a che fare soltanto con la dimensione onirica dell’Europa che non c’è. Al contrario, ha molto a che fare con la realtà contingente e con i problemi che incontriamo ogni giorno. Questo fraintendimento è una potente “macchina di Erone” (qui), una colonna portante della narrazione che viene proposta a supporto, a sostegno, dell’Europa che c’è. Una narrazione che ha alimentato un europeismo apodittico e astratto dalla realtà, ha promosso un consenso di massa che prescinde dalla riflessione su costi e benefici reali, su interessi premiati e interessi sacrificati. Una narrazione rassicurante, una chiave di lettura assolutoria delle difficoltà contigenti, che anestetizza e rende miopi nei confronti del presente; uno slogan deviante che, invitando a proiettare lo sguardo verso un futuro fantastico ed immaginario, distoglie l’attenzione dai problemi del presente, dalle limitazioni che altrimenti parrebbero insensate.

Perché prendersela tanto con i sognatori degli Stati Uniti d’Europa? In fin dei conti che male fanno? Credo, invece, che facciano un danno molto grave. Forse inconsciamente ma, di fatto, svolgono il compito dei gate keeper. Supportano gli interessi di chi ha voluto – e di chi ha interesse a mantenere – l’attuale assetto dell’integrazione europea. Contribuiscono a spandere il cloroformio che l’ideologia e la narrazione mainstream versano sul declino economico e sociale in cui è caduta l’Italia anche, ma soprattutto, a seguito e a causa della sottoscrizione del Trattato di Maastricht.

5.2 L’ITALIA NELL’EUROPA CHE C’E’

Siamo entrati con una palla al piede (debito pubblico elevato), con le mani legate (maggiore inflazione) e con gli occhi bendati (minore produttività) in un sistema fortemente concorrenziale (un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, art. 3 Tfue). Un ordinamento che non fa sconti ai Paesi che sono più lontani dal modello economico-sociale comune prefigurato dal Trattato di Maastricht. Un sistema che non ha riguardi nei confronti di chi è meno competitivo per ragioni storiche, legate anche ad un diverso sistema sociale e ad un diverso modello di sviluppo. Un sistema che, per di più, ha sottratto al governo delle economie nazionali i principali strumenti d’azione (politica monetaria, politica di bilancio, politica valutaria e controllo dei movimenti di capitale, politica industriale) utili per contrastare gli squilibri economici, strumenti di cui dispone ogni Paese al mondo (174 Paesi tra i 193 che aderiscono all’ONU, tranne i 19 Paesi dell’eurozona). Strumenti che sono stati sottratti ai governi nazionali senza, peraltro, essere trasferiti al livello superiore nelle mani di un governo accentrato. Un’unione fatta di Paesi in forte concorrenza che, per essere competitivi, devono contenere i prezzi dei propri beni e servizi riducendo, in primo luogo, il costo del lavoro per unità di prodotto, con l’obbiettivo di prevalere nei confronti di altri Paesi con i quali ci siamo uniti, Paesi che, a loro volta, devono perseguire analoghe politiche di contenimento dei costi e dei prezzi per prevalere su di noi. Poteva andare bene?

Diceva Federico Caffè che abbiamo aderito al sistema europeo di fissazione dei cambi con la stessa leggerezza con la quale l’11 dicembre 1941 abbiamo dichiarato guerra agli Stati Uniti d’America. E con la stessa leggerezza, oggi, molti italiani vivono con rassegnazione il declino economico del nostro Paese in quanto lo ritengono un fenomeno ineluttabile, senza alternative possibili, una fatalità che non si può spiegare, un destino avverso inevitabile che non possiamo controllare e che, comunque, trova un senso, una ragion d’essere, se viene interpretato come un prezzo da pagare per il “nostro bene” lungo un percorso che ha messo a nudo le nostre debolezze, e quindi è necessariamente accidentato, ma è un percorso salvifico che ci porterà alla terra promessa. Il sogno diventa pertanto un alibi che esime dal fare i conti con la realtà, un alibi che libera dalla fatica di ascoltare, di leggere, di impegnarsi per capire. E’ molto più comodo stare nella pancia del gregge e farsi condurre, senza porre domande e soprattutto senza chiedersi chi sia il pastore e dove stia conducendo il gregge.

E non sempre i pastori conducono le greggi verso pascoli più verdi. Memorabile il tracciato della transumanza spiegato da Tommaso Padoa Schioppa (qui): “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitare l’intervento pubblico a quanto strettamento richiesto dal loro funzionamento, adottare riforme strutturali (che in realtà sono contro-riforme) … Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma deve essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità. Cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e di fortuna. E’ sempre più divenuto il campo della solidarietà dei cittadini verso l’individuo bisognoso, e qui sta la grandezza del modello europeo. Ma è anche degenarato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato“.

Impossibile fare meglio di Padoa Schioppa nel sintetizzare in poche parole l’ideologia che abbiamo abbracciato congiuntamente al Trattato di Maastricht. Un’ideologia che riconduce il funzionamento dell’intera società, in tutte le sue articolazioni, ad identificarsi nei principi guida del mercato, nelle sue regole, nelle sue dinamiche. Una società nella quale le parole chiave non sono “diritti sociali” e “solidarietà”, ma “concorrenza” e “competitività”. Un’ideologia che prevede vincitori e perdenti e questi possono essere singole persone, intere classi sociali, interi Stati sottoscrittori del Trattato.

Gli italiani che sono caduti sotto la soglia della povertà, la classe dei lavoratori, l’intero Paese (nei suoi valori medi) sono risultati tra i perdenti a seguito della sottoscrizione del Trattato. Certamente “a seguito” non significa necessariamente “a causa di”. L’approfondimento della relazione causale è un esercizio faticoso che richiede studio, impegno, dedizione; lo dico a parziale scusante degli euro-sonnambuli. E’ un esercizio faticoso che propone chiavi di lettura cui non si può arrivare intuitivamente. E’ necessario dedicare tempo e impegno, ma è anche l’unico modo per non cadere nei ridicoli luoghi comuni proposti dalla narrazione mainstream: il declino è frutto del destino contro il quale non possiamo fare nulla; d’altra parte noi italiani non siamo capaci di governarci; abbiamo vissuto per troppo tempo al di sopra delle nostre possibilità e adesso dobbiamo tirare la cinghia; lo Stato è come una famiglia; paghiamo le conseguenze di una finanza pubblica inefficiente e dissestata; abbiamo fatto troppi debiti; il debito pubblico è il debito degli italiani; ogni bambino nasce già con una quota di debito a suo carico; senza l’euro staremmo peggio, e così via.

La tabella (dati Eurostat) e il relativo grafico riportano la dinamica del divario del reddito pro-capite italiano, in migliaia di euro, come differenza rispetto alla media dei 15 Paesi più sviluppati dell’Eurozona. E’ possibile rilevare che, dopo un lungo inseguimento culminato nel 1995, la distanza del reddito pro capite italiano dalla media (livello zero nel grafico) è bruscamente tornata su valori negativi e fortemente decrescenti a partire dal 1996, anno nel quale inizia il declino economico ormai strutturale dell’Italia. Negli anni successivi al 1996 e fino al 2008 il reddito pro capite italiano cresce, ma cresce meno della media dell’eurozona.

Come evidenziato dal grafico seguente (tratto da qui), dopo il rallentamento rispetto alla media dell’eurozona iniziato nel 1996, a partire dal 2008 inizia il vero e proprio disastro. L’Italia smette di crescere e, presumibilmente, soltanto nel 2026 il PIL effettivo potrebbe tornare ai livelli del 2008 avendo perso, nei 18 anni, oltre 400 miliardi rispetto al trend di crescita precedente.

Sappiamo cosa è avvenuto dopo il 2008: l’UE ci ha imposto la terapia così detta dell’austerità. Ma nel 1996 cosa è accaduto di così improvviso e così devastante? Nel 1996 fu definitivamente stabilito il cambio della lira prima nei confronti dell’ECU e poi dell’euro.

5.3 NON ESISTE LO SPAZIO PER “PIU’ EUROPA” NELLA DIREZIONE DELL’UNIONE POLITICA

Chiedono più Europa gli euro-sonnambuli, ma la realtà non ne vuole più sapere di fare passi nella direzione auspicata. Passi verso un’unione più stretta ne sono stati fatti molti in passato. Ora il processo si è fermato. Ho cercato di rappresentare le principali idee di questo post, e di quelli che seguiranno, nel grafico seguente che commenterò via via nello sviluppo delle argomentazioni.

Sull’asse verticale è misurato il percorso verso un’unione sempre più stretta. Ever closer union: con queste tre parole, e niente più, l’UE esprime i suoi programmi per il futuro. Dice che vuole andare avanti ma non dice dove. Parole senza responsabilità, cui non corrisponde un contenuto. Una formula vuota che elude la sostanza dei problemi. In realtà l’unione è cresciuta per via incrementale, un pezzo per volta, senza una tabella di marcia, senza dichiarare dove vuole andare.

Sull’asse orizzontale è riportato il tempo. La curva blù indica il percorso svolto nel tempo verso un’unione sempre più stretta. La semiretta rossa rappresenta un asintoto orizzontale, una barriera ad ulteriori sviluppi dell’unione, introdotto il 7 febbraio 1992 con il Trattato di Maastricht. Il Trattato in effetti si oppone, come dirò più avanti, ad ulteriori sviluppi che facciano avanzare l’unione oltre la dimensione economica verso la dimensione politica. E’ vero il contrario di quanto sognano gli euro-sonnambuli: l’integrazione economica, per come è stata costruita e disciplinata non solo non conduce verso l’integrazione politica, ma la impedisce.

Ma c’è di più; a partire dal 2015, la curva del percorso subisce un arretramento. Questa inversione sta a rappresentare il fatto che la stessa integrazione economica, a lungo andare e sotto la pressione di crisi di vario genere, mostra la propria insostenibilità, e deve fare passi indietro, se disgiunta dall’integrazione politica. Da qui la progressiva sospensione di alcuni principi costitutivi dell’architettura ordinamentale dell’unione, sospensione necessaria per tenere in piedi l’edificio e per tamponare conseguenze socialmente distruttive.

Siamo all’interno di un paradosso: l’integrazione politica è esclusa dagli orizzonti che la stessa UE esamina e discute, ma è assodato che senza integrazione politica l’unione, limitata all’economia e alla moneta, non può reggere ed è destinata a cadere. Questo problema ha una dimensione così rilevante per il futuro dell’eurozona che non ci si deve sorprendere se lo stesso Azeglio Ciampi, tra i principali fautori della nostra adesione al trattato di Maastricht, lo ha voluto mettere in evidenza insieme alle parole entusiastiche con le quali, riferendosi al primo giorno di vita dell’euro, dichiarava che “il grande sogno che sembrava un’utopia oggi è realtà … la nuova moneta è comunque un inizio, l’inizio per risolvere i problemi nostri e dei Paesi europei ma, attenzione, abbiamo unito le monete ma non l’Europa. Se non portiamo avanti l’unione politica e istituzionale, questa zoppia, prima o poi, farà crollare tutto” (La Repubblica, 31 dicembre 1998).

Come evidenziato nel grafico, il percorso nella direzione auspicata dai sognatori si è fermato. Si è fermato perché è arrivato al capolinea. I binari sono finiti. Oltre la fine dei binari c’è un muro. Siamo alla stazione terminale. Per procedere oltre si dovrebbe prima demolire la vecchia ferrovia, non più adatta a supportare i nuovi treni; si dovrebbe ricostruirla daccapo, fin dalla stazione di partenza, e si dovrebbe prolungarla verso una nuova più avanzata stazione di arrivo, ma l’intera nuova ferrovia dovrebbe essere ricostruita con un’idea progettuale e con una tecnologia molto diverse da quelle usate in passato. Si dovrebbe passare dalla ferrovia dei treni regionali alla ferrovia dell’alta velocità.

In realtà nessun Paese membro lo vuole. L’idea di costituire una unità europea che sia non soltanto economica (il mercato comune, la moneta condivisa, la banca centrale europea) ma che sia anche unione autenticamente politica, una realtà statuale sovrana, non è sostenuta da alcun leader politico europeo, da nessun partito, in nessun paese. Non è scritta nei Trattati, non è programmata in alcun documento ufficiale dell’Unione Europea. Al contrario, i governanti degli Stati membri tendono a tenere ben stretto quel che rimane della sovranità nazionale. Le Corti Costituzionali nazionali accendono il semaforo rosso ogni volta che l’UE tende ad allargarsi oltre quanto stabiIito dai Trattati ponendosi in contrasto con le leggi fondamentali nazionali. I veri sovranisti oggi sono gli Stati, non coloro che si permettono di evidenziare quanto l’Unione Europea sia lontana e, soprattutto, profondamente diversa (e esiziale per l’Italia) rispetto all’idea che i sognatori hanno dell’Europa. Provare per credere: quanto ritenete che sia possibile l’adesione della Germania, della Francia, dell’Olanda e degli altri Paesi europei ad un ordinamento federale che sottragga loro ogni sovranità allo stesso modo in cui ne sono privi i singoli Stati della federazione americana?

E’ una costruzione, quella attuale, che è caratterizzata da un paradosso: non ha, e soprattutto non vuole avere, una dimensione politica, autonoma e sovrana di tipo statuale, ma ha connaturato ab origine nel proprio assetto istituzionale un contenuto fortemente politico. Nell’UE non è necessario “governare”, non c’è bisogno dello Stato, della politica, di un potere esecutivo: le scelte politiche, quanto meno in materia economica, sono già state fatte; sono stabilite a monte, sin dall’origine, e sono cristallizzate nei Trattati, una volta per tutte. La costruzione che è stata realizzata presenta un evidente deficit democratico. La democrazia implica che, con il voto, gli elettori possano cambiare la politica. In Europa no: la sovranità che è consentita al popolo è la possibilità di cambiare il governo nazionale ma senza cambiare politica economica, perché questa è impostata sul pilota automatico determinato dalle regole europee. E’ stata de-potenziata la reale possibilità di incidere con il voto sulle scelte politiche perché la cassetta degli attrezzi dell’esecutivo, qualsiasi colore esso abbia, è stata svuotata e la politica economica è confinata su binari già fissati da regole e trattati. La democrazia riduce così il proprio campo di esistenza. Le è sostanzialmente preclusa l’area dei diritti sociali ed è confinata alle politiche in materia di libertà civili. Al resto provvede il mercato, tenuto al riparo dalle interferenze e dalle distorsioni prodotte dalle istanze democratiche.

E’ diffusa negli elettorati la percezione di irrilevanza della politica, di impotenza delle istituzioni democratiche, di non perseguibilità degli obbiettivi sociali prescritti dalle Costituzioni scritte dopo la seconda guerra mondiale con l’obbiettivo di realizzare sistemi di democrazia sostanziale. E le persone che più si allontanano dalla politica, a cominciare dall’esercizio del diritto del voto, sono proprio le persone che avrebbero maggiormente bisogno della politica – non a caso sistematicamente vituperata dalla narrazione mainstream – perché questa intervenisse a difesa dello Stato sociale e a salvaguardia delle condizioni materiali di vita.

I sonnambuli non hanno capito che l’ordinamento istituito dai Trattati non si colloca nella direttrice del loro sogno, non è una tappa nel percorso che porta ad un nuovo Stato sovrano, gli Stati Uniti d’Europa. Si è realizzato un altro sogno, ben diverso, che si colloca nella direzione opposta. E’ il sogno di coloro che si proponevano di liberare l’economia dall’ “ingombrante” presenza pubblica, si proponevano di liberare il mercato dagli effetti “distorsivi” generati dall’intervento dello Stato e della politica nelle dinamiche economiche e sociali, si proponevano di sottrarre agli Stati le sovranità nazionali sulle politiche economiche e non certo per riproporle in una dimensione più grande a livello accentrato.

E’ questo il macroscopico fraintendimento: come si può pensare che un’unione costruita per emarginare lo Stato possa essere una tappa del percorso verso la realizzazione di uno Stato più grande?

L’obbiettivo era ed è la realizzazione di una società il più possibile spoliticizzata, una società degli individui e dei loro comportamenti razionali in risposta agli stimoli del mercato. Tutto ciò come condizione per il <<logico compimento del programma liberale>>, secondo l’auspicio di Friedrik von Hayek (v. qui). L’obbiettivo, raggiunto e consolidato nell’attuale assetto dell’unione, era ed è il de-potenziamento degli Stati nazionali, la loro emarginazione, lo svuotamento dei poteri di intervento, non certo l’obbiettivo di costruire un nuovo Stato, più grande, che riproponesse su scala più ampia, a livello europeo, il modello degli Stati nazionali. Al contrario, si è realizzato un assetto ordinamentale pienamente organico all’ideologia neoliberale; un assetto che, come auspicato da von Hayek, <<non sia una semplice alleanza, né una completa unificazione>>; un assetto che è qualcosa in più di un accordo intergovernativo ma molto meno di uno Stato federale; non una semplice organizzazione internazionale, né un superstato. Un assetto che, secondo il progetto di von Hayek e dell’ideologia ordoliberale, avrebbe portato al confinamento degli Stati nazionali al mero compito di stabilire le regole per il corretto funzionamento del mercato.

Quello che è stato realizzato non è un assetto istituzionale da completare nella continuità. E’ già completo. Non è un edificio cui, rispetto al progetto, manca ancora qualche piano. L’edificio è stato progettato per come è. Gli attuali pilastri e architravi sarebbero strutturalmente inadeguati a reggere ulteriori piani. Non ci sono carenze od errori progettuali da correggere: lo si voleva così e lo si è realizzato così, in piena rispondenza al progetto che, a sua volta, era pienamente rispondente ad una ben definita impostazione ideologica.

Se si vorrà costruire un edificio diverso, si dovrà elaborare un nuovo progetto, fondato su una idea progettuale molto diversa e si dovrà ricostruire a partire dalle fondamenta. “Ma una cosa è certa: questa forma simil-statale dell’Europa non potrà essere quella certo molto evocativa ma anche molto fuorviante invocata dai federalisti degli Stati Uniti d’Europa” (A. Bolaffi, La fuorviante utopia degli Stati Uniti d’Europa, qui). Lo stato federale non può essere un modello per il futuro per la semplice ragione che questo, come gli Stati nazionali, è concepito in base all’idea di sovranità statuale mentre l’idea che sta alla base del progetto di integrazione europea nasce, al contrario, proprio dall’istanza del superamento degli Stati-nazione e della loro sovranità.

Quando l’UE si interroga sul suo futuro, ci conferma che il sogno dell’ “Europa che non c’è” non è nemmeno preso in considerazione. Si è conclusa il 9 maggio 2022, ed è durata un anno, la Conferenza sul futuro dell’Europa voluta dal Presidente francese Macron nel marzo del 2019. La mission della Conferenza è stata delineata in una Dichiarazione comune, adottata nel marzo 2021 dai Presidenti degli organi dell’UE (Parlamento, Consiglio, Commissione), nella quale hanno indicato un elenco di temi, da prendere in considerazione e sui quali dibattere, suddivisi in nove gruppi: [1] cambiamento climatico e ambiente; [2] salute; [3] un’economia più forte, giustizia sociale e posti di lavoro; [4] l’UE nel mondo; [5] valori e diritti, stato di diritto, sicurezza; [6] trasformazione digitale; [7] democrazia europea; [8] migrazioni; [9] istruzione, cultura, giovani e sport.

Insomma, l’Unione Europea si è interrogata sul suo futuro ma non ha nemmeno preso in considerazione l’opportunità di mettere all’ordine del giorno e di avviare una discussione in merito ai passi necessari, il tragitto, verso un assetto statuale di tipo federale. L’U.E. guarda al suo sviluppo futuro, ma non traccia una rotta. Siamo all’ufficialità: l’UE ci comunica ufficialmente che nel suo futuro, nell’orizzonte che intende esplorare, non è contemplato il percorso verso la costituzione di uno Stato federale. Con buona pace dei sonnambuli. Non se ne parla. Nemmeno al livello retorico con il quale spesso si indorano le false buone intenzioni. Nella Relazione Finale (qui) non vi è cenno alcuno a prospettive di avanzamento dell’integrazione verso un orizzonte federale. Ma anche con riferimento ai nove temi trattati, la Relazione Finale rinvia ad un futuro indefinito ogni eventuale ipotesi di modifica dei Trattati. E comunque, al fine di sgombrare il campo da ogni dubbio in merito a eventuali prospettive di modifica, nello stesso giorno dell’evento conclusivo della Conferenza (9 maggio 2022), i governi di 13 Stati membri hanno sottoscritto un documento congiunto (qui) nel quale dichiarano che non sosterranno “tentativi sconsiderati e prematuri di avviare un processo di modifica dei Trattati“.

Anche in precedenti documenti programmatici, gli organi dell’UE non sono mai andati oltre i confini dell’unione economica e monetaria e non hanno mai fatto cenno alla prospettiva di un’unione politica. Non lo hanno fatto nella relazione dei quattro Presidenti “Verso un’autentica Unione economica e monetaria“, nel “Piano per un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita” della Commissione , nella nota “Verso una migliore governance economica della zona euro: preparativi per le prossime fasi“, nella relazione dei cinque Presidenti “Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa“.

Ovviamente ciò non esclude che se ne possa parlare in futuro. Ma quanto è realistico alimentare questa aspettativa? Forse, uno sguardo alla storia può aiutare. Lo dico con le parole di Carlo Galli (qui) e più diffusamente (qui): <<la creazione di soggetti politici unitari, cioè realmente sovrani (come dovrebbe essere l’Europa), non nascono a tavolino dai trattati. La sovranità, quando è già in essere, si esercita e si manifesta attraverso il diritto, ma per venire al mondo ha bisogno di un investimento di energia enorme. Fuor di metafora, le sovranità nascono da guerre di liberazione, da guerre civili, da rivoluzioni o collassi di sistemi istituzionali. Cioè nascono da cesure, dall’esercizio di potere costituente. Far nascere una sovranità politica europea attraverso le contrattazioni fra le sovranità dei singoli Stati dell’Unione è praticamente impossibile. Non è mai successo e non succederà mai>>.

Stay tuned, il “percorso” continua. Le prossime puntate:

6. QUALE DOVREBBE ESSERE IL PRIMO PASSO VERSO UNA SOVRANITA’ POLITICA EUROPEA?

7. IL MURO CHE SI OPPONE ALL’UNIONE POLITICA

8. PUO’ REGGERE L’UNIONE ECONOMICA IN ASSENZA DI UNIONE POLITICA?

9. SIAMO NELLA TRAPPOLA DI HAYEK

10. QUALI ESITI SI PROSPETTANO? MOMENTO HAMILTON? MOMENTO POLANYI? RITORNO ALL’UNIONE PRE-MAASTRICHT?

Leave a Comment